IL GIURE SICULO

(nell’immagine una ricostruzione dell’Antico Parlamento in seduta plenaria: sul palco il Re, o in sua assenza il Vicerè; ai piedi del palco il Sacro Regio Consiglio, tra organo di governo e massima giustizia costituzionale/amministrativa; a destra del palco i prelati e gli abati del Braccio ecclesiastico; a sinistra del palco i baroni parlamentari del Braccio militare; di fronte i “sindaci” delle città non feudali per il “Braccio demaniale”)

 

Che leggi aveva il Regno di Sicilia?

Nel sentire comune si parla erroneamente di “dominazioni”. Se la Sicilia avesse davvero subito delle dominazioni, in Sicilia avrebbero dovuto avere vigore le leggi di altri paesi.

E invece non è così, per niente. Da un punto di vista giuridico la Sicilia era un “ordinamento giuridico completo”, tipico di uno stato sovrano, nel quale non poteva applicarsi alcuna legge che non fosse riconosciuta come legittima dall’ordinamento stesso.

Per essere più chiari neanche l’Italia di oggi è un ordinamento giuridico completo; infatti i regolamenti europei, e in genere tutta la normativa dell’Unione Europea, non solo trovano applicazione anche in Italia, ma prevalgono su quella interna.

Non così nel Regno di Sicilia dove si era stratificato un insieme di leggi che, dalla conquista normanna, giunse sino alla seconda decade del 1800.

Le leggi siciliane, intese come il corpus di leggi positive vigenti in un determinato momento, prendevano complessivamente il nome latino di Siculae Sanctiones. Esse, dall’invenzione della stampa in poi, vennero raccolte periodicamente in alcune pubblicazioni per dare certezza del diritto. La versione autentica, tuttavia, era quella conservata nella Cancelleria Regia come redatte dal Protonotaro e Logoteta del Regno.

Le leggi siciliane potevano essere classificate in diversi modi. I più importanti sono i seguenti tre.

Una prima classificazione è di livello geografico.

La Sicilia aveva tre livelli di diritto:

1) il diritto Romano, o universale;

2) il diritto Regio, o nazionale, o “provinciale”;

3) il diritto municipale.

Per capire questa distinzione bisogna considerare che gli storici moderni del diritto considerano tutta l’Europa tra la caduta dell’Impero Romano e le codificazioni napoleoniche come “diritto intermedio” o, meglio, come paesi di “diritto comune”. In questo periodo il diritto romano costituiva la base di tutti gli ordinamenti europei, sia di quelli occidentali o cattolici, sia dell’impero bizantino e del mondo ortodosso.

Anche il diritto siciliano veniva chiamato jus siculum commune perché apparteneva a questo mondo. Non è affatto un caso il fatto che l’unica parte d’Europa dove non sono arrivate le codificazioni illuministiche, cioè le Isole Britanniche, si dicano tutt’oggi di “diritto comune”, cioè, in inglese, di “common law”.

La Sicilia era quindi considerata ideale “provincia” di un impero romano-cristiano universale.

Il diritto romano, laddove non riformato da quello nazionale, regolava quello che oggi chiameremmo il diritto privato. In Germania, erede più diretta del Sacro Romano Impero, il diritto romano sopravvisse fino al 1900, quando fu infine sostituito anche lì da un codice civile.

Il diritto regio (o “provinciale”, cioè della provincia “Sicilia”) e quello municipale, in quanto posteriori e speciali, prevalevano su quello romano.

Il diritto regio prevaleva ovviamente su quelli municipali ed aveva origine dalla conquista normanna, cioè da quando era nato il moderno Stato di Sicilia.

Il diritto municipale, infine, era il retaggio di un’antichissima stratificazione storica di norme locali, sia consuetudinarie, sia di origine concessoria. La Sicilia, come entità geo-politica, era nata nell’Antichità come confederazione di “poleis”, e l’organizzazione urbana della sua vita politica sarebbe arrivata almeno sino alle riorganizzazioni borboniche di primo Ottocento. Non c’era un “diritto degli enti locali”, ma ogni ente aveva il proprio piccolo ordinamento, con la propria costituzione specifica, come un piccolo stato. E infatti erano considerati giuridicamente dei veri e propri stati, talvolta “monarchici”, come negli stati feudali,  tal altra “repubblicani” come nelle città demaniali. Non c’era un “sindaco” come lo intendiamo oggi. A Palermo c’era il “Pretore”, a Messina lo “Stratigoto”, a Catania il “Patrizio”, e così via gli altri “magistrati” delle varie realtà. Anche le città feudali avevano ordinamenti diversi l’una dall’altra, a seconda della storia politica dei singoli centri: ad esempio a Terranova (Gela) erano presenti i “giurati” di estrazione locale.

Un’altra distinzione, fondamentale, era tra il diritto scritto e le consuetudini. Queste ultime, talvolta raccolte e stampate per dare certezza del diritto, non avevano una fonte di produzione costituzionale, ma originavano dalla prassi, e talvolta venivano “riconosciute” dall’alto. Le consuetudini erano in piccola parte relativa a prassi costituzionali, ma costituivano soprattutto la gran parte del diritto municipale.

Le consuetudini, a livello “nazionale”, erano particolarmente importanti in quello che oggi diremmo il diritto settoriale. Gli “usi” dei commercianti ad esempio costituivano la base di quello che era, per i tempi, il diritto commerciale, in quanto si andava lentamente distinguendo da quello civile ancora tutto basato sul diritto romano. Per fare un esempio il diritto romano tratto dal corpus juris prevedeva solo un contratto di societas che era assimilabile alla moderna “comproprietà” o “condominio”, senza alcun riferimento allo svolgimento in comune delle attività economiche. Il diritto commerciale consuetudinario, invece, in gran parte importato dall’Italia e, ancor più, dalla Catalogna (gli “usatges” di Barcellona), aveva introdotto la compagnia (antenata della attuale “società in nome collettivo”) e la commenda (antenata tanto della attuale “società in accomandita semplice”, quanto del contratto di “associazione in partecipazione”).

La distinzione più importante, comunque, era quella della gerarchia delle fonti, che riguardano comunque le sole leggi nazionali e, quando non sono consuetudinarie, quelle municipali.

La gerarchia di fondo è la seguente:

  1. Costituzioni, Capitoli del Regno e altri Atti parlamentari (soprattutto quelli che riguardano i donativi ed altra materia finanziaria);
  2. Prammatiche, regie e viceregie, con la ovvia prevalenza delle prime sulle seconde;
  3. Atti minori, quali istruzioni, dispacci reali e simili.

Formalmente il potere legislativo emanava dal Re ma le leggi del più alto livello erano sempre formalmente di natura pattizia, tra il Re e il Parlamento che rappresentava la Nazione.

Era stata la Nazione, nell’atto costitutivo del Regno di Sicilia (24 dicembre 1130) per volontà del grandissimo Ruggero II a dare vita alla nuova realtà geopolitica, e il Parlamento conservava sempre l’ultima parola su tutte le questioni più importanti, sia di tipo politico-costituzionale (come decidere a chi dare la Corona nei momenti di crisi), sia sulle norme di rango legislativo più elevato.

Al più alto livello erano le leggi più antiche, risalenti al “grande” Regno di Sicilia di epoca normanno-sveva, che costituivano l’ossatura costituzionale dello Stato, e che integravano ed emendavano il diritto privato di epoca romana e stabilivano i fondamenti del diritto pubblico. Queste erano chiamate le Costituzioni del Regno di Sicilia, o latinamente “Constitutiones”.

Esse non erano mai state promulgate unilateralmente dal Re, anche se emanavano sostanzialmente dalla sua volontà. In epoca successiva la quasi totalità di queste Costituzioni erano raccolte nel Liber Augustalis di Federico II imperatore. Le Costituzioni di Melfi erano state presentate dal Re, elaborate dai suoi giuristi, al Parlamento del Regno di Sicilia, al quale ormai erano invitati stabilmente anche i rappresentanti delle città, e non più solo i prelati e feudatari, come ai tempi della Gran Contea, o “occasionalmente”, come in epoca normanna. Le Costituzioni di Melfi abrogavano e assorbivano in sé tutta la vecchia legislazione normanna (dalle Assise di Ariano), integrandola con le “novelle” volute da Federico II stesso.

Queste Costituzioni ancora nel 1700 erano chiamate “jus utriusque siciliae”, non perché fossero espressione di un “Regno delle Due Sicilie” che allora non esisteva, ma perché per secoli, dopo la scissione del Vespro, sarebbero sopravvissuti come base giuridica comune tra i “due” Regni di Sicilia (rispettivamente citra e ultra pharum, cioè il Regno di Napoli e quello di Sicilia propriamente detto o “di Trinacria”).

A queste più antiche costituzioni se ne aggiungono poche altre dei successivi re fino al Parlamento di Catania del 1296. Dopo non ci sono più “Costituzioni” perché la forma di Governo del Regno di Sicilia cambia radicalmente, in senso costituzionale, e il re sostanzialmente perde la facoltà di imporre da una posizione di forza la propria volontà.

Nondimeno le antiche “Costituzioni” restano in vigore, se e in quanto non abrogate dalle successive leggi, dette “Capitoli”.

Le “Costituzioni” sono leggi del re votate dai parlamenti. L’iniziativa regia e la modestia dei teorici emendamenti possibili in sede parlamentare rendono queste leggi ancora proprie di un sistema di potere quasi assoluto, con la rappresentanza della Nazione in una posizione ancora poco più che consultiva, quale effettivamente era in epoca normanna e sveva.

La Rivoluzione del Vespro, ricostituendo uno Stato di Sicilia dopo la breve parentesi dell’usurpazione angioina (che, come in tutta la storia successiva del Regno di Napoli, non avrebbe mai più convocato alcun Parlamento ma avrebbe avuto una legislazione assoluta, emanante dalla volontà regia, sul modello francese importato dagli angioini), doveva venire a patti con la Communitas Siciliae (la Comunità/Federazione dei Comuni siciliani, demaniali e feudali). Le ultime costituzioni, quelle aragonesi, emanano ancora dalla volontà del re, ma sono realmente contrattate con la Nazione siciliana.

La vera svolta avviene a Catania nel 1296. Da quel momento il Re e il Parlamento letteralmente condividono la funzione legislativa. Il modello si perfeziona nei decenni e nei secoli successivi, ma la piega è presa.

Il Re, ormai, non può fare conto solo sulle vecchie gabelle (imposte indirette) stabilite da Normanni e Svevi, ma ha bisogno di sistematiche “collette” che vengono formalmente “donate” al Re dalla Nazione su richiesta del primo. Il Parlamento siciliano, primo in Europa, approvando i “donativi” inaugura la tradizione parlamentare di approvazione delle “manovre finanziarie” che arriva ai nostri giorni. L’approvazione del donativo e la sua ripartizione aveva valore di legge.

Da cosa nasce la moderna funzione legislativa del Parlamento? Dal “patto” tra Corona e Nazione. I giuristi siciliani attribuivano a questa categoria di norme, derivanti, questa volta sostanzialmente, dalla volontà parlamentare, la duplice natura di “legge” e di “contratto”. Il Re chiede i contributi. I Parlamenti approvano ma in cambio chiedono delle grazie, sotto forma di provvedimenti legislativi. Il Re può accordare o negare queste suppliche, o accordarle subordinandole a restrizioni o condizioni. Prima di dare il suo placet o non placet il Re (o il Vicerè, dopo) si deve avvalere per forza del parere vincolante della suprema magistratura dell’Isola: il Sacro Regio Consiglio, composto dai più alti ministri e magistrati del Regno, sempre “regnicoli” (cittadini del Regno) e con incarichi di lungo termine, spesso a vita, garanti dell’autonomia del Regno anche di fronte a re stranieri non residenti.

Gli atti parlamentari senza placet venivano pubblicati comunque, a titolo orientativo e di futura memoria, sia pure senza efficacia giuridica.

Infine, passato il placet, fatta un’ultima verifica di coerenza delle nuove leggi con l’ordinamento giuridico e costituzionale del Regno, veniva dato l’exequatur, con cui venivano promulgati e registrati i Capitoli del Regno, cioè la stragrande maggioranza delle norme vigenti nel Regno di Sicilia. Al momento della pubblicazione i Capitoli entravano nello Jus commune publicum Siculorum, erano cioè pienamente efficaci.

Per questa complessa procedura i Capitoli, editi dalla fine del ‘200 ai primi dell’ ‘800, erano chiamate leggi pactatae (cioè, quasi in Siciliano, “appattate” tra Re e Parlamento). Inutilmente un giurista di corte, il Simonetti, nel XVIII secolo tentò di estendere alla Sicilia il regime assoluto di emanazione delle norme come derivate dal re, partendo dall’argomento che la promulgazione finale era pur sempre opera del monarca. La magistratura non sposò questa teoria assolutistica e illuminista, preferendo quella più “nazionalista” del Di Napoli, che considerava originaria la sovranità del Re al pari di quella degli stati feudali, derivata dagli antichi “comites” cioè letteralmente “compagni” del Conte Ruggero al momento della conquista. Del resto un Capitolo del 1451, di re Alfonso, vietava espressamente al Re, rafforzando le concessioni già fatte da Federico III, di emanare Capitoli senza l’assenso del Parlamento.

Dal 1547 il potere del Parlamento è rafforzato con l’istituzione della “Deputazione del Regno”, una vera e propria commissione parlamentare permanente che curava l’esecuzione dei capitoli e la ripartizione e riscossione dei donativi dalla Nazione.

Al di sotto delle “leggi” propriamente dette, cioè delle Costituzioni e Capitoli, sulla cui osservanza tutti i re di Sicilia prestavano giuramento all’atto dell’insediamento, fino all’incoronazione di Ferdinando III, fatta per delega dal Viceré Fogliani nel 1759, si trovavano quelli che oggi chiameremmo i “regolamenti”, cioè le prammatiche emanate qualche volta dal Re, molto più spesso dal Viceré. Molte di queste avevano oggetto organizzativo/amministrativo della macchina burocratica statale, come quando, al finire del 1500, Filippo I (II in Spagna), riorganizzò la burocrazia e la magistratura dell’Isola.

Le “prammatiche” erano soggette ad exequatur da parte del Sacro Regio Consiglio (per gli aspetti giuridici) e dal Tribunale del Real Patrimonio (per gli aspetti finanziari), e non potevano violare in alcun modo le Costituzioni e i Capitoli del Regno (per privilegio concesso esplicitamente da Re Carlo I, V come S.R.I. nel 1538). Più d’una volta, le prammatiche regie furono spedite indietro dai coraggiosi ministri e magistrati siciliani, affinché fossero modificate per essere rese compatibili con l’ordinamento costituzionale siciliano.

I regolamenti minori o settoriali erano dette Istruzioni, come ad esempio quelle regolanti la procedura giurisdizionale. Altri provvedimenti, ancor più subordinati, potevano essere presi in forma libera, più spesso sotto la forma del dispaccio reale o di lettere circolari o, genericamente, “sanctiones”.

Questo ordinamento ha un momento esatto in cui esce di scena di colpo, quasi senza lasciare tracce.

La Legge (Regno delle Due Sicile, da 3 anni appena costituito per fusione dei Regni di Napoli e Sicilia) n. 1595 del 21 maggio 1819, all’art. 3 stabilisce che dal 1° settembre dello stesso anno entrano in vigore in Sicilia le norme del “Codice per lo Regno delle Due Sicilie”. La norma stessa stabilisce che da detta data “le leggi romane, le costituzioni, i capitoli del regno, le prammatiche, le sicule sanzioni, i reali dispacci, le lettere circolari, le consuetudini generali e locali, e tutte le altre disposizioni legislative cesseranno ne’ nostri dominj al di là del Faro di avere forza nelle materie che formano oggetto delle disposizioni contenute nel mentovato codice per lo regno delle Due Sicilie”.

Il codice ferdinandeo era ricalcato su quello francese, di diretta derivazione napoleonica, e quindi rivoluzionaria e illuminista, andando a sostituire il “Code Civil” che Murat attuava direttamente durante la sua monarchia con analoga rivoluzione giuridica nel regno continentale.

La Sicilia, che il governo duosiciliano non voleva mai nominare come tale (i “dominii al di là del Faro”) forse per paura della stessa parola, che evocava il cessato Regno, fu conquistata così dal razionalismo illuminista, dai Francesi e da Napoleone, quando quest’ultimo era già a S.Elena. Da quel momento essa diventava, giuridicamente, un paese di diritto “continentale”, recidendo per sempre ogni legame con la “common law”.

Vero è che restavano transitoriamente in vigore le disposizioni di diritto pubblico non ancora esplicitamente in conflitto con la suddetta nuova normativa.

Ma anche questa sarebbe stata in fretta spazzata via dalla nuova legislazione duosiciliana. Chi, magari per amore di troppo revisionismo storico agiografico, sostiene la teoria di una piena continuità giuridica tra “Regno di Sicilia” e “Regno delle Due Sicilie” dovrebbe fare i conti con questi fatti, con questa realtà inoppugnabile, che parla invece di una cesura drastica, di una definitiva soluzione di continuità di un ordinamento che affondava in secoli di statualità le proprie origini.

Se qualcosa di marginale sia sopravvissuto a lungo non sappiamo con esattezza. In ogni caso le leggi, ormai “italiane”, del 1865, avrebbero spento comunque, al 31 dicembre di quell’anno, ogni effetto delle “vecchie norme”.

Uscite dalla vigenza positiva le “Siculae Sanctiones” furono quasi avvolte dalla “damnatio memoriae”, distrutte e dimenticate, perché viste, tanto dal nuovo governo napoletano e poi ancor più da quello italiano, come “poco più che un reperto antiquario, finendo anche per essere guardate con sospetto quali potenziali strumenti di rivendicazioni anti-unitarie di stampo autonomistico e legittimistico e, comunque, come residui di un passato ‘illiberale’ [post 1860 questo, nostra nota] da rimuovere”, nel quadro della “debellatio prima del Regno di Sicilia e poco dopo anche del Regno delle Due Sicilie” (Andrea Romano, 1998). Essa fu salvata soltanto dalla solerzia tutta siciliana di eruditi bibliotecari, archivisti e giuristi nazionalisti, come il nostro Vito La Mantia, che ne preservarono lo studio e la memoria.

Si deve attendere il XX secolo per una loro lenta resurrezione, nel dibattito scientifico e storico-giuridico, il XXI secolo per una loro riedizione, anche se tutt’oggi mancano edizioni critiche.

I Siciliani, nella storiella che ci inculcano, non devono avere mai avuto un “giure siculo”: razza di selvaggi, che solo la cultura continentale europea ha finalmente ricondotto alla civiltà.

In questo articolo abbiamo tentato di dimostrare che non era affatto così, e che la legislazione sicula, per molti versi analoga a quella britannica, per fonti e modi di produzione, è stata soltanto molto meno fortunata di quella.

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