Storia politica della Sicilia – Ruggero II

Ruggero II. Non “un” Re di Sicilia, ma IL Re di Sicilia per eccellenza. Un gigante della storia, fondatore (o ri-fondatore come vedremo) del Regno di Sicilia, e a un tempo fondatore del Parlamento, e delle due cose insieme, cioè della Monarchia parlamentare. Porta a termine l’edificio politico iniziato dal padre Ruggero I, al quale dà una forma che sfiderà i secoli, e porta la Sicilia al rango di superpotenza internazionale. La sua reggia è un crogiolo di cultura, un misto di potenza, sfarzo, saggezza amministrativa, insomma la “grandezza” al centro di una metropoli, Palermo, allora più grande di Roma o Parigi. La sua flotta temuta in tutto il Mediterraneo.

Ma andiamo con ordine, cercando di discernere il mito dalla realtà. Prendiamo un’ideale macchina del tempo e ripercorriamo la straordinaria epopea del suo governo, dal 1112 (quando uscì di tutela) al 1154, anno della sua morte. Su di lui sono stati scritti libri interi, e questo compendio – sia pure lungo – farà torto a molti dettagli. Ma accontentiamoci, sia pure a fini divulgativi.

Intanto sfatiamo subito un mito: per favore, non chiamiamolo “normanno”, se non di ascendenza.

Normanno era certamente suo padre, Ruggero I, venuto dalla lontana Normandia. Ruggero II, invece, in Francia non mise mai piede. Probabilmente il franco-normanno, ai suoi tempi, stava rapidamente sparendo, mescolato ormai al nascente siciliano moderno nel quale stava lasciando profonde tracce. Mai Ruggero (d’ora in poi chiamiamolo solo così, essendo impossibile la confusione con il suo genitore, il Gran Conte) prese ordini o fu feudatario della Francia o della Normandia. Di padre normanno e madre piemontese, aveva preso i capelli castani dalla madre italiana, capelli che, almeno in gioventù, dovette avere lunghi e folti come una criniera, se i contemporanei gli diedero l’attributo di “leonino”. Nato a Mileto, nella Calabria estrema, era cresciuto, si era formato  come uomo, in una Palermo eletta da Adelasia a nuova capitale, e palermitano e siciliano fu per formazione. Ruggero fu un re palermitano e siciliano, siciliano come noi. Non ce lo facciamo togliere, spacciandolo per un “dominatore” esterno. Certo, ancora il “melting pot” da cui sarebbe nato il Popolo Siciliano contemporaneo non era ancora compiuto al suo tempo. Le etnie erano ancora “accostate” le une alle altre. Ma Ruggero le “comprendeva” tutte. Aveva studiato da ragazzo il latino, il greco e l’arabo, quando i relativi volgari erano tutti e tre parlati nella città di Palermo, ed egli tutti li doveva padroneggiare di sicuro.

L’abbiamo lasciato a 18 anni, presiedere a Messina una curia accanto a sua madre, già uscito di tutela da alcuni mesi, già quindi nel ruolo di Gran  Conte e poco dopo con la stizza di vedersi rispedire la stessa, ripudiata da Baldovino, re di Gerusalemme.

Quali furono poi i primi atti del giovane sovrano? Di questo si sa oggettivamente poco, ma da quello che si può ricostruire, non fu in prima battuta un uomo di spada, ma un vero amministratore. Capì, con intelligenza rara per i tempi, che i segreti del successo nell’attività di governo derivavano soprattutto dall’avere alle spalle una solida amministrazione finanziaria. A quella, sin dall’inizio, diede un’importanza straordinaria: le armi venivano dopo. Solo con l’amministrazione e i conti a posto avrebbe potuto avere quell’arma in più che mancava allora a tanti sovrani europei. Per prima cosa, quindi, fu un re “amministratore e ragioniere” più di ogni altro. Per prima cosa, quindi, si fece presentare dai conti e baroni i titoli rilasciati dal suo mitico genitore, con i quali amministravano le loro terre, e li raccolse nella propria cancelleria. Poi tutti questi titoli furono raccolti in appositi “Quaterni”, cioè registri feudali. Si scoprì che, nonostante tutta la buona volontà di Adelasia, durante la reggenza non erano mancati i primi tentativi dei feudatari di “rosicchiare” i diritti del Sovrano.

Se il padre aveva fissato i confini dei terreni genericamente su “le usanze dei Saraceni”, questi ora erano analitcamente descritti nei registri dell’ufficio finanziario, la “Dohana”, ormai non più ufficio municipale ma definitivamente principale organo finanziario del Regno. Nei registri erano scritti non solo l’elenco dei feudi con i loro confini, ma tutti i pesi e servizi (prima di tutti quelli militari) legati al feudo, e infine anche l’elenco nominativo dei “villani” (cioè dei servi della gleba) annessi a quel feudo come pertinenze. Ruggero usò quel poco di organizzazione amministrativa che era in uso nell’Europa feudale, riformandola, e innestandovi i più evoluti elementi greci e saraceni. Il risultato fu che, tastata la sua determinazione, nessuno dei feudatari siciliani osò venire meno ai propri doveri. Essi erano quasi suoi “funzionari”, più che piccoli signori. Del resto in Sicilia il feudalesimo, da poco introdotto, non aveva salde radici, e le altre componenti sociali ed etniche garantivano un gran potere al nuovo sovrano.

Sempre nei registri erano indicate anche i fondi e le rendite necessarie all’amministrazione della flotta. Questa, che poi sarebbe stata guidata dagli “Ammiragli” (ancora poco più che gli arabi “emiri”), era però amministrativamente sostenuta da una magistratura speciale, istituita nella città navale di Messina, detta in seguito “magistrato della Galea”, composta di 5 componenti, tra cui in Presidente. Ruggero, sovrano di un’isola, capì subito, come il suo consaguineo Guglielmo il Conquistatore in Inghilterra, che la differenza tra lui e gli altri sarebbe riposata su una potente flotta navale, alla quale dedicò da subito le proprie attenzioni, anche più di quanto non avesse fatto già suo padre.

Fece da subito le proprie alleanze commerciali e politiche. Nell’eterna disputa tra Genova e Pisa, favorì la prima, non ci è ben chiaro perché, forse perché la seconda era troppo “imperiale”, e quindi potenzialmente un pericolo per l’indipendenza dell’isola. Nel 1117 ai Genovesi fu concessa una casa commerciale a Messina, la capitale commerciale dell’Isola, con alcune franchigie. Questa “amicizia” sarebbe stata confermata in seguito da Guglielmo I nel 1156, e persino da Guglielmo II nel 1174.

Nello stesso anno concluse finalmente il suo matrimonio, con Elvira di Castiglia. Lui di 22 anni, lei più o meno lo stesso; matrimonio politico, ma che si rivelò anche solido e di vero affetto. I due erano giovani, e condividevano le cure e i rischi di un nuovo stato. Ebbero molti figli, e non potevano che essere solidali l’un l’altro, anche perché Ruggero avrebbe lasciato ad Elvira le cure della reggia, durante le sue frequenti assenze. Anno cruciale il 1117, dopo i primi 5 anni di silenzio delle cronache, durante i quali il giovanissimo Ruggero aveva consolidato il proprio dominio. Lo stesso anno, infatti, si interrompe, per reciproche provocazioni, la tregua fatta dal padre con gli Ziriti di Mahdìa, nella vicina Tunisia. Il governo arabo traballante si mise sotto la protezione del governo africano degli Almoràvidi, che, partito dalla lontana Mauritania, aveva sottomesso a sé tutto il Maghreb. La Sicilia non era impreparata, aveva la sua buona flotta che poteva difendere il confine Sud.

Nel 1119 al vecchio ammiraglio Cristoforo, successe Cristodulo, sempre di famiglia greca, o greco-sicula. Validissimo ammiraglio, per la prima volta “Grande Ammiraglio”, che univa in sé le funzioni di Primo Ministro e Capo della flotta.  I Greci erano pratici del mare e dell’amministrazione, e allo stesso tempo soltanto “borgesi”, quindi incapaci di sfidare realmente il potere reale, e allo stesso tempo cristiani, e quindi preferibili ai Saraceni nei ruoli di Governo. Questa fu certo la loro migliore età, prima dell’inizio della loro assimilazione ai Latini.

Il rafforzamento del potere del Gran Conte, che in Sicilia non aveva trovato ostacoli, procedeva pure in Calabria, dove l’autorità del Gran Conte risaliva rapidamente sino ai confini del Ducato di Puglia. Era allora, tuttavia, sotto Guglielmo, il Ducato di Puglia dilaniato dall’anarchia baronale. Qualche conte della Calabria settentrionale, di fronte al vicino “cattivo esempio” dei colleghi pugliesi, tentò di scuotere il giogo del potente sovrano siciliano, invocando il fatto che la Calabria teoricamente faceva parte del Ducato di Puglia di cui era feudo. Non fu difficile, a quel punto, per un sovrano di un regno bene organizzato riportarli rapidamente all’ordine (1121), punendo a quel punto con estrema severità i ribelli, ai quali furono confiscati i beni. Da allora in poi, mai più nessuno, in Calabria, osò scherzare con l’autorità di Ruggero.

Ruggero però capiva che il caos oltre il Monte Pollino stava cominciando a diventare un problema da risolvere anche per lui. L’occasione gliela diede il cugino-nipote Guglielmo, Duca di Puglia, che non riusciva proprio a sottomettere il barone di Ariano, in Irpinia, e che perciò gli chiese aiuto. E qui si vide la differenza tra la primitiva organizzazione feudale normanna o longobarda della Puglia, e la modernissima Sicilia. Ruggero, che per la Calabria era “vassallo” dell’impotente Duca, gli mandò 600 militi, ma – ecco la novità – gli mandò anche 500 once d’oro, che fecero la differenza (1122).

Guglielmo riaffermò la propria traballante autorità e non sapeva come ringraziare il potente congiunto. Gli diede l’altra metà di Palermo, che d’ora in poi divenne un’unica città, rinunciò ad ogni diritto feudale sulla Calabria, gli diede persino un feudo in Irpinia, la Valle Caudina, che, però, Ruggero, non potendo controllarla, girò come dote alla sorella maggiore Matilde (anche lei figlia di Adelasia) che andò in sposa al potente e confinante Rainulfo, Conte di Avellino.

Da un punto di vista municipale la fusione di Palermo antica (il Cassaro) con la Kalsa (il borgo sul mare fondato dagli emiri Kalbiti), avrebbe preso alcuni secoli per fondere veramente i due agglomerati da un punto di vista urbanistico. Ma Palermo, città cosmopolita, centro del potere politico, da questo momento in poi, conosce un exploit economico, culturale e politico senza precedenti.

Ruggero non ebbe il tempo di godersi questi primi traguardi che lo stesso anno una flotta almoravide saccheggiò Nicotera, in Calabria. Ma la reazione della flotta siciliana sulla costa tunisina non si fece attendere. In questi frangenti (1123) fu occupata l’Isola di Pantelleria, l’ultimo lembo di Sicilia rimasto in mano agli Arabi (le Pelagie erano allora disabitate), e da allora e per sempre riunita politicamente alla Sicilia. Pantelleria, a differenza dell’Isola, era stata araba per 400 anni circa, e tale sarebbe rimasta ancora a lungo, con tracce di arabo ancor oggi presenti nel dialetto pantesco.

Le scaramucce con gli arabi non sono mai decisive. Ma, in quegli anni, i Maltesi, ancora in gran parte arabi e musulmani, incoraggiati dalla baldanza dello Stato di Mahdìa, si rifiutano di pagare il tributo al quale Ruggero I li aveva sottomessi. Nel 1127, con una spedizione, i Maltesi sono sottomessi del tutto, e si avviano ad essere cristianizzati e integrati con il resto dell’Isola (ma non linguisticamente, dato che il Maltese, ancor oggi, è una lingua di ceppo semitico, una sorta di arabo incrociato col siciliano).

Pacificato il Mare Africano, ormai con una netta superiorità navale siciliana, nella Terraferma si apre uno scenario nuovo. Sempre nel 1127 il Duca Guglielmo II muore senza eredi diretti. Per i suoi riottosi feudatari questo significava semplicemente che era arrivato il momento dell’indipendenza. Per Ruggero, invece, quello di impadronirsi dell’Italia meridionale come legittimo erede del Ducato. Di uno stato più grande del suo, vero capolavoro di forza, strategia e diplomazia.

Vero è che Ruggero poteva disporre dello Stato più ricco e organizzato d’Europa, vero è che disponeva, oltre che delle milizie feudali, peraltro fedeli, anche di milizie personali, tra cui spiccava la guardia saracena, fatta da Arabi di Sicilia sotto la sua diretta protezione. Ma questa “mossa” gli metteva contro tutti: il papa, l’imperatore, la potente repubblica marinara di Pisa, i baroni pugliesi, gli stati meridionali indipendenti superstiti (il Ducato di Capua/Gaeta dei normanni Drengot, la Repubblica Marinara di Amalfi, teoricamente vassalla del Ducato di Puglia, il Ducato di Napoli/Sorrento, di origine bizantina ma indipendente). Insomma questa “mossa” metteva tutta l’Italia contro la piccola Sicilia; come mai avrebbe potuto vincere? Semplice, con il genio di un uomo superiore.

Con sole 7 galee della sua potente flotta vince la resistenza della sola Salerno, capitale del Ducato da quando questo aveva assorbito il vecchio Principato Longobardo di quella città. Entrato a Salerno, Ruggero accetta le richieste di tutti i feudatari che lo riconoscono, consente agli Amalfitani, che lo riconoscono signore feudale, di mantenere il controllo delle loro fortezze (il che valeva quasi l’indipendenza). Insomma, accetta lo stato di cose, pur di farsi riconoscere Duca da quasi tutti i vassalli di quel grande e disordinato stato.

Restava alquanto indeterminato il confine Nord, dove, al collasso del grande Ducato di Spoleto, Roberto il Guiscardo si era preso tutto l’Abruzzo fino al fiume Pescara, i Principi normanni di Capua si erano presi l’Abruzzo settentrionale, mentre la parte estrema (Rieti, Spoleto, e altre città in Umbria e Marche) era finita sotto l’autorità pontificia. Alla venuta di Ruggero di fatto l’Abruzzo era nella più totale anarchia, e i suoi baroni non si degnarono né di riconoscere né di misconoscere il nuovo Duca, ancora troppo lontano da loro. Il confine teorico settentrionale del Ducato arrivava allora da qualche parte indefinita nel Molise.

Ma, naturalmente, la Sicilia rinata politicamente, trovò ancora una volta sul proprio cammino la rivale di sempre, Roma, allora sotto le insegne pontificie. Come la Roma antica e come quella post-risorgimentale, sarà proprio la città eterna l’eterna rivale della Sicilia. In quel momento Roma era il potere temporale dei papi, terrorizzati di avere un sovrano di Sicilia che arrivasse sin quasi a casa loro. Così, tanto per dare un benvenuto, a questa proclamazione, papa Onorio II, che si sentiva alto signore feudale del Ducato di Puglia, manda una bella scomunica a Ruggero II, e a tutti quelli che lo avessero riconosciuto come Duca di Puglia. Il primo a sfilarsi dalla sudditanza feudale, fu proprio il cognato Rainulfo, Conte d’Avellino che a denti stretti lo aveva prima riconosciuto in cambio peraltro di una signoria sui feudi circonvicini priva di qualunque fondamento che Ruggero, pur di insediarsi a Salerno, aveva dovuto accettare.

Ruggero era troppo intelligente per scontrarsi addirittura con il papa. Sfodera quindi la sua diplomazia. Offre umilmente l’omaggio feudale al papa per il Ducato di Puglia. La risposta di Onorio è una seconda scomunica.

Vedendo che da sole le scomuniche non funzionavano, il papa si mette a capo di un suo esercito, scende a Capua, dove stringe un’alleanza con Roberto Drengot, principe normanno della Terra di Lavoro, anche lui timoroso della potenza degli Altavilla, lo consacra solennemente Principe di Capua, e, per non sbagliare, lancia una terza scomunica all’incolpevole Ruggero e ai suoi adepti. Non contento di ciò lancia una vera e propria crociata contro Ruggero, chiamando a raccolta tutti i baroni pugliesi, ai quali promise la remissione della metà dei loro peccati se avessero lottato contro “l’usurpatore siciliano”, e la totalità se fossero morti in battaglia.

Ruggero, di fronte a tanta insania, non si fece passare neanche per la mente di sfidare tutti insieme tanti nemici, ma lasciò una guarnigione a Salerno, e tornò in Sicilia, nella sua Sicilia dove armò il suo poderoso esercito, feudale e personale, cristiano e saraceno. Poi passò in Calabria, dove arruolò un altro esercito di sostegno e quindi varcò di nuovo il confine pugliese per fare sul serio. Ma, da genio politico qual era, mentre l’esercito guidato dal papa lo aspettava dalle parti di Salerno, lui devia sul Principato di Taranto del quale intanto si impadronisce. Questo Principato, che comprendeva gran pare della Penisola Salentina era stato abbandonato dal suo legittimo feudatario, Boemondo d’Altavilla, il quale, partecipando alla I crociata, si era andato a creare in Siria il Principato di Antiochia, un potente stato feudale. Taranto era restata nominalmente affidata alla amministrazione del Papa, ma in realtà non era difesa che debolmente. In questo modo si impadronì per davvero di un’importantissima parte dell’Italia meridionale, lasciando guarnigioni a presidiarla. Scorre poi la Puglia, dove i feudatari e le città libere, non avendo mai visto un esercito così disciplinato e organizzato,  si arrendono tutte e riconoscono il nuovo Duca come loro signore.

Papa Onorio, senza molta autonomia finanziaria, sotto il sole estivo cocente si logorava attendendo l’attacco di Ruggero. Questi, che era fresco di truppe e pieno di soldi, si accampa in una guerra di posizione, lasciando che la coalizione dei ribelli si sfasciasse da sola.

Dopo 40 giorni di logoramento, papa Onorio capì di avere perso. Se fosse stato ancora qualche settimana, sarebbe rimasto solo e con poca gente affamata. Così manda un’ambasceria a Ruggero dicendogli che se fosse venuto a Benevento, che era suo possedimento (sarebbe rimasta papale sino al 1860) lo avrebbe riconosciuto Duca di Puglia investendolo.

Ruggero, fiutando forse una trappola, fu costretto ad umiliarlo. Arrivato alle porte di Benevento chiese al papa di uscire lui dalla città per benedirlo. A Onorio non restava che accettare, con grande risentimento, nei suoi confronti, da parte dei baroni che lui aveva aizzato in una crociata e che ora erano abbandonati alla vendetta di Ruggero. Ruggero accettò di dichiararsi vassallo del Papa, per tutti i possedimenti continentali, persino della Calabria, sebbene l’appartenenza di questa alla Puglia fosse del tutto teorica. Compromesso accettabile, pur di avere un riconoscimento internazionale come legittimo Duca di Puglia (e Calabria).

In pratica Ruggero, con tutto il suo esercito, non aveva ancora combattuto neanche una vera battaglia. La sua guerra era stata vinta tutta con la deterrenza militare e con la diplomazia. Molti, non tutti, i baroni, gli fecero omaggio. Perdonò al cognato di Avellino e lo accettò nuovamente come vassallo. Ma ora anche a lui stavano finendo i fondi. E quindi non sprecò un sol uomo, e tornò a svernare nella sua Palermo, alla fine 1128, lasciando truppe nelle terre occupate.

Nell’inverno 1128/29 in sua assenza qualche città fu persa. La città di Troia, nel foggiano, non aveva mai accettato il suo dominio. Il Conte di Aversano, in Puglia, si ribella ed occupa Brindisi.

Nella primavera del 1129 torna in Puglia, ma ora è più tranquillo. Non c’è alcun fronte con il papa. E quindi, un po’ con qualche azione di forza, un po’ con il logoramento, accettando qualche concessione con grande diplomazia, dividendo gli avversari, sottomette a poco a poco tutti i baroni. Le città irriducibili, assediate, isolate, furono vinte con facilità e poi punite ferocemente, perché si capisse chi era il Sovrano. Alla fine riunisce tutti i feudatari pugliesi in un “protoparlamento” a Melfi. Lì furono vietate per sempre le guerre interne tra feudatari, furono messe sotto la protezione ducale le proprietà ecclesiastiche e, con grandissimo acume, furono protetti dalle violenze private i commerci, le arti, l’agricoltura e i trasporti dei tempi (viandanti e pellegrini). Ruggero II stava portando, dopo secoli di guerre banditesche, finalmente un po’ d’ordine in Italia meridionale, un ordine in cui potesse prosperare una qualche forma di società civile. I baroni ribelli furono puniti solennemente. Qua e là nelle città più importanti il Duca impose sue fortezze, per controllare militarmente il territorio.

Vinta la battaglia del “Ducato di Puglia”, era ora di fare il gran salto di qualità. Era ora di diventare “RE”, per mettere finalmente un solco incolmabile tra lui e i suoi feudatari.

E da dove partire per fare un Regno? Dalla Puglia? Impossibile! A parte la fragilità del nuovo dominio, non c’era nessun appiglio giuridico. Il Regno doveva partire dal cuore dei suoi domini: la Sicilia. La Sicilia, di cui si conservava chiaramente l’idea che in passato era stata un Regno, tale doveva ritornare ad essere.

A questo Regno, però, a guisa di “possedimenti”, dovevano essere per sempre congiunti i feudi meridionali, come stati separati, ma ad un tempo perpetuamente uniti alla potente corona mediterranea.

Così nel 1129 a Salerno Ruggero convoca un altro di quei consigli “pre-parlamentari” che spesso i Normanni avevano convocato in passato. Non era ancora un Parlamento, perché non aveva ancora funzioni costituzionali sovrane, riguardando “soltanto” il Ducato di Puglia, ma c’era una novità. Accanto ai prelati e ai baroni, Ruggero volle fare intervenire “persone illustri” da tutto il Ducato. Aveva già in mente l’idea dei “rappresentanti della Nazione”. Cosa fece discutere ed approvare a Salerno? In sostanza la perdita di indipendenza del Ducato di Puglia che, non spariva del tutto come corona, ma si legava ad una nascente “Corona di Sicilia”, di cui diventava pertinenza, riconoscendo che alla Sicilia spettava il titolo di Regno. Nel Parlamento di Salerno, quindi, nasceva un principio del tutto moderno: la volontà della Nazione nelle scelte politiche fondamentali. A Salerno anche il Principe di Capua dovette accettare l’alta autorità feudale di Ruggero. Preferirono i Drengot questa sottomissione nominale a doversi confrontare con i potenti conterranei che avevano acquisito tutto il resto dell’Italia meridionale alla Sicilia. All’infuori del Ducato di Napoli, ormai ristretto a poco più della città, tutta l’Italia meridionale era, di nome o di fatto, sotto l’imperio di Ruggero.

A questo punto poteva tornare in Sicilia dove poteva con tutta tranquillità aver luogo il più grande capolavoro della sua politica: la nascita di un Regno, il Regno di Sicilia.

Ma qual era questo “antico Regno di Sicilia” che si stava “restaurando”? Certamente quello greco di Agatocle, di Pirro e Ierone, poi trasformato dai Romani in Provincia. Secondo l’Amari il riferimento era invece al “regno” islamico di Giafar, di poco più di 100 anni prima, e successori. Ma a noi questo sembra eccesso di filo-islamismo. Semmai è vero che Giafar si era proclamato Malak, cioè Re, solo perché anche lui aveva avuto notizia della dignità di Regno che aveva avuto l’isola nell’Antichità. Il Regno di Sicilia è quindi uno dei più antichi Stati al mondo. L’occupazione romana, nella ideologia medievale, l’aveva solo trasformato in Provincia, per riacquistare de jure il rango di Regno una volta uscita dal diretto dominio dell’Impero.

Il Parlamento di Palermo del 1130 (perché ormai così possiamo chiamarlo) fu forse meno “democratico” di quello di Salerno, perché già le decisioni nella sostanza erano prese. Ma fu certamente più solenne, più importante politicamente. Con questo atto stava nascendo un Regno e stava nascendo con un organo politico che allargava la Curia del Re a tutti i più alti rappresentanti del regno, in massima parte Conti e Abati, ma anche “altre ragguardevoli persone” tratte tra le più rappresentative tra i sudditi. Al Parlamento Ruggero comunicava la sua volontà che voleva ratificata, ma quell’approvazione rafforzava con il consenso generale la legittimazione del suo dominio. Ci fu un papa a benedire, a ungere questo nuovo regno, anzi un antipapa, Anacleto II (questo trovò disponibile in quel momento). Ma la benedizione del papa non valeva investitura bensì riconoscimento; riconoscimento di un diritto naturale di un Popolo sancito da una storia millenaria (troppe volte i cronisti del tempo insistono sul fatto che Ruggero stava “ri”-costruendo e non costruendo il Regno di Sicilia per poter sottovalutare questo punto di vista) nonché dalla volonta attuale di quel popolo stesso per mezzo dei suoi primati autorizzati ad esserne la migliore rappresentanza.

Quel Parlamento era ancora nient’altro che un organo consultivo, ma era investito di una funzione costituzionale importantissima: l’ultima parola su chi dovesse essere il legittimo re di Sicilia, che mai avrebbe perso nel tempo, e che anzi si sarebbe soltanto rinforzata.

Il Parlamento riuniva i “rappresentanti” del Regno di Sicilia in senso stretto che si andava a creare: cioè la Sicilia e la Calabria, ora perfettamente unite in un’unica grande “Sicilia”. La Calabria – è pur vero – restava nominalmente feudo papale e ivi non valeva l’apostolica legazìa che faceva il re anche capo della Chiesa. Ma per il resto le due gran contee cessavano per sempre di esistere anche da un punto di vista formale e diventavano un unico stato, il Regno di Sicilia appunto. Diverso il caso del Ducato di Puglia (e – come vedremo – del Principato di Capua) dove già avevano “votato” a Salerno la dipendenza dalla Sicilia, e che però non era del tutto integrato/fuso col Regno, ma provincia annessa, corona feudale dipendente da quella principale, che vedeva come territorio metropolitano la Sicilia e la Calabria.

Oltre all’antipapa, assistettero all’incoronazione, avvenuta nel modo più solenne, i più importanti prelati del Regno: l’Arcivescovo di Palermo, primate di Sicilia, e i tre presuli dei tre tradizionali stati longobardi del Meridione, cioè Salerno, Capua e Benevento.

Il titolo assunto fu “Re di Sicilia” (cioè della Sicilia e Calabria, il regno in senso stretto), “Duca di Puglia” (della “grande Puglia” teoricamente arrivante sino all’Abruzzo meridionale) e persino “Principe di Capua”, sebbene ancora allora il Principato di Capua fosse sostanzialmente ancora uno stato indipendente che aveva appena riconosciuta l’alta autorità feudale di Ruggero. Fu proprio il Principe di Capua, primo titolo feudale del Regno, a porgere la Corona a Ruggero, con il quale ora doveva condividere la Signoria del suo stesso stato.

Solo Napoli sfuggiva ancora al dominio, mentre a Nord i confini in Abruzzo erano ancora del tutto indefiniti, con una teorica dipendenza dell’Abruzzo “citra” dalla Puglia, e di quello “ultra” da Capua, quindi in teoria tutto dentro il regno, ma solo in teoria.

L’appoggio dell’Antipapa Anacleto II valeva una nuova rottura con il papato, ora sotto Innocenzo II. Rottura inevitabile, dopo il faticoso riconoscimento del dominio sulla Puglia. Ma Ruggero, poco a poco, sarebbe venuto a capo anche di questo nuovo fastidio.

Ruggero arrivava al culmine delle sue ambizioni all’età di 35 anni, la metà – come insegnava Dante – delle migliori aspettative di vita del tempo. Ma ancora doveva lottare molto per consolidare questo importante traguardo. Accanto a lui, Elvira, fu incoronata prima Regina di Sicilia (di quelle moderne almeno). La Corona di Ruggero non assomigliava a quelle europee medievali che noi immaginiamo. Era una cuffia, con pendenti pietre preziose, il Kamelaukion, praticamente una copia delle corone dei Basileis bizantini, a riprova che ancora – dopo secoli – la Sicilia guardava prevalentemente al mondo greco.

Tra i primi atti da Re, Ruggero si dedicò a completare l’edificazione della Chiesa Siciliana già iniziata dal Padre, e continuata dalla madre e da lui stesso, negli anni della Gran Contea. Tutta la Chiesa di rito greco, già nello stesso 1130 fu organizzata in 41 monasteri di rito basiliano (alcuni del tutto autonomi, con un loro abate, altri come sedi distaccate da Messina, con un semplice priore), di cui 30 in Sicilia (nel Val Demone, ancora in gran parte greco) e 11 in Calabria (idem). Quest monasteri furono posti sotto la giurisdizione dell’Abate del Monastero di San Salvatore in Messina, che fu costituito in Archimandrita, cioè abate/vescovo. L’Archimandridato di Messina era così la diocesi greco-cattolica per eccellenza, messa sotto la diretta protezione del re: fu esentata da qualunque giurisdizione e sottomessa solo alla giustizia regia. Teniamo conto che allora le Chiese, e certamente fino al regno di Guglielmo I, non avevano ancora una giurisdizione ecclesiastica speciale. Se da un lato questo diede alla comunità greca, che raggiunse con Ruggero II il massimo splendore, un grande riconoscimento istituzionale, dall’altro, fece sì che le chiese parrocchiali non monastiche di rito greco, restando tutte sotto l’autorità di vescovi latini, poco a poco persero il loro rito, per adottare quello franco-latino, o gallicano, che avevano introdotto i Normanni. Non bisogna confondere tuttavia l’Archimandrita di Messina, che era capo della Chiesa Greca, con l’Arcivescovo (latino) di Messina, che era altra istituzione. Ancora oggi, tuttavia, dopo la scomparsa della Chiesa greca di Sicilia, il titolo onorifico di Archimandrita è assegnato all’Arcivescovo della Città dello Stretto.

Le altre diocesi, quella latine, furono sistemate definitivamente nel 1131, prendendo quasi la forma attuale.

Cefalù e Lipari furono costituite in diocesi, la prima scorporata da Messina, la seconda dall’Abazia di Patti, pur continuando a coincidere le due cariche. Queste, più la diocesi monastica (affidata ai benedettini) di Catania, erano suffraganee dell’Arcivescovo di Messina.

Le altre, e cioè Mazara, Girgenti e Siracusa, erano dipendenti dall’Arcivescovo di Palermo, che era anche primate di Sicilia. Mancava solo la diocesi di Monreale, che avrebbe costituito Guglielmo il Buono e le diocesi nei capoluoghi di Provincia in età recente (Trapani, Caltanissetta, …) per arrivare praticamente alla mappa attuale.

Nel 1135 infine un’ampia donazione all’ospedale Giovanni Battista di Messina e la sua fusione amministrativa con quello di Gerusalemme, segna l’ingresso degli “Ospitalieri di S.Giovanni” in Sicilia, quelli che un giorno sarebbero diventati i Cavalieri di Malta.

In quegli anni al Governo di Sicilia avviene un importante avvicendamento. Viene nominato Grande Ammiraglio (1132) il grandissimo Giorgio di Antiochia, esperto tanto in amministrazione pubblica quanto in battaglie navali, praticamente perfetto per il ruolo, mentre il vecchio Cristodulo viene fatto “Protonobilissimo”, cioè in pratica pensionato con tutti gli onori. Giorgio sarà il braccio armato dI Ruggero. A lui – tra l’altro – si devono tanto la spettacolare Chiesa di San Nicolo dei Greci a Palermo (la c.d. Martorana) quanto il “Ponte dell’Ammiraglio” sul fiume Oreto, la prima grande opera pubblica in Occidente dalla caduta dell’Impero Romano.

Sistemate le cose siciliane Ruggero torna nel Continente a rinsaldare la sua autorità, ancora un po’ malferma, di “Duca di Puglia”. Il suo primo atto da Re fu quello di chiedere alla Repubblica di Amalfi la consegna del controllo delle torri cittadine. Amalfi, pensando forse di avere a che fare con un “Duca di Puglia” qualunque, rifiutò. Ruggero, a questo punto, oltre a bloccarla da terra con un esercito, mandò dal mare la flotta di Giorgio a bloccare i rifornimenti. Amalfi aveva prosperato sin lì come Repubblica Marinara. Già teorico ducato bizantino, si era sottomessa feudalmente a Roberto il Guiscardo, ma aveva nella sostanza potuto conservare la propria indipendenza grazie alla propria superiorità sui mari. Ora si trovava ad avere a che fare con uno Stato, quello siciliano, più forte di essa nella marina militare. Dopo poca resistenza dovette arrendersi e consegnare le torri. Era la fine dell’indipendenza, e l’inizio del declino. C’è da dire che, approfittando della dominazione siciliana, i pisani, che peraltro dei Siciliani erano nemici giurati, cominciarono a rubare spazi sempre maggiori agli amalfitani nei commerci con l’Oriente. E quindi fu l’inizio della fine. Caduta Amalfi, la Repubblica/Ducato di Napoli, sotto Sergio, temendo di fare la stessa fine, offrì omaggio feudale a Ruggero. Questi, non potendo conquistare Napoli, accettò questo primo passo formale, in attesa di rafforzarsi.

Il problema di Ruggero nel Sud era che, a differenza che in Sicilia, e tutto sommato anche in Calabria, non poteva cambiare in pochissimi anni un’organizzazione sociale devastata da secoli di anarchia. Era costretto a “governare” la Puglia per mezzo di infidi baroni che, a differenza di quelli creati da suo padre in Sicilia, non gli erano fedeli e quindi si ribellavano in continuazione. Ci vollero anni per domarli. La prima e più importante grana, come al solito, gli venne dal più potente dei feudatari, il Conte di Avellino. Nell’assenza del Conte Rainulfo il fratello Riccardo, chissà perché, rivendicava che questa contea fosse uno stato del tutto indipendente che nulla c’entrava con la Sicilia o con la Puglia. Il fratello, da lontano, né appoggiò né sconfessò tale tradimento. Sua moglie, Matilda, sorella di Ruggero, stanca di un matrimonio infelice, abbandona con il figlio Avellino e si mette sotto la protezione del fratello. Rainulfo a questo punto si sveglia e intima al Re di “restituirgli” la moglie. Ruggero, in una situazione quasi tragicomica, gli risponde che lei è fuggita di sua volontà e che non è certo lui a trattenerla e anzi gli intima di sconfessare il fratello e di fare subito omaggio feudale.

Che ottenne Ruggero? Che Rainulfo trovò il pretesto per ribellarsi. Si mise a capo di una coalizione di baroni ribelli, tra cui il potente Principe di Bari, e lo stesso Principe di Capua che non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso la pesante tutela siciliana, e sfidò apertamente il re siciliano.

Ma erano tanto ribelli quanto disorganizzati. Bastò che nel 1132 il Re sbarcasse a Taranto con un forte esercito che la coalizione iniziò a sfaldarsi. Alcuni si prostrarono a Ruggero, altri furono costretti a vendere i feudi all’erario (che, sempre ricco, era tranquillamente in grado di riscattarli), il Principe di Capua tentò la via diplomatica. Il Principe Grimoaldo di Bari, restato solo, tentò di resistere, ma Ruggero assediò la città e, dopo tre settimane, la prese incamerando il principato all’erario.

La guerra era complicata dalla guerra esterna a Roma, dove si combattevano le fazioni del papa Innocenzo e dell’antipapa Anacleto. Alla fine, dopo un tentativo del Principe di Capua di intercedere per il ribelle Conte di Avellino, si venne alla guerra.

In guerra aperta contro due nemici potenti, per la prima volta il prudente Ruggero II fu sconfitto in campo. Tutto sembrava perduto. Altri baroni, prendendosi di coraggio, si unirono alla rivolta. Il re corse a Bari, dove stavano per prendere di nuovo le armi contro di lui, e solo concedendo un’ampia autonomia comunale riuscì a mantenere dalla sua parte la città pugliese. Ancora una volta Ruggero vinceva con la diplomazia più che con le armi. Temporeggiando qua e là reputò bene tornare in Sicilia a passare l’inverno a riorganizzarsi.

Questa volta, nel 1133, si mise a capo di un potente esercito fatto in gran parte di Saraceni, e con questo mise a ferro e fuoco Basilicata e Puglia, sottomettendo a una a una le città, più con gli assedi che con la guerra aperta, e punendo in modo esemplare i ribelli, ma, furbissimo, evitò ancora i due nemici principali che l’avevano sconfitto l’anno prima (Avellino e Capua) e a fine stagione tornò a svernare in Sicilia.

L’assenza del re non aiutò certo le sue armi. Ai due ribelli si unì il Ducato di Napoli, che sperava di riconquistare l’indipendenza. A tale scopo Capua e Napoli spedirono l’oro delle loro chiese a Pisa, per averne un sostanzioso aiuto.

Non dobbiamo vedere questa resistenza come un fatto essenzialmente negativo. In fondo gli stati, feudali o municipali, dell’Italia meridionale, stavano resistendo come potevano alla conquista siciliana, che però guadagnava sempre spazio.

Nella primavera del 1134 Ruggero torna, questa volta con 60 galee. A tanta armata le città si arrendono a una a una. Dopo aver preso Sorrento e Nocera, però, Ruggero non sfida Napoli, che considera ancora troppo forte, ma ripiega verso Avellino, dove il cognato “traditore” era ora isolato dai suoi alleati e quindi facile da sconfiggere. Rainulfo è sconfitto, si umilia, si butta ai piedi del re chiedendo perdono. Ruggero perdona ancora una volta il cognato, dal quale ritorna la moglie fuggita, ma mutila di molto i suoi possedimenti, mette guarnigioni regie, rende effettiva finalmente la sua subalternità.

Non avendo più alleati, ora Capua è sola. Investita dalle truppe regie, il Principe fugge e i Siciliani entrano nel Principato senza colpo ferire. Entrano pure a Benevento, città papale, che viene data all’antipapa Anacleto che sempre lo aveva appoggiato. Napoli, paurosa, fa nuovamente atto di sottomissione feudale. Ruggero reputa ancora una volta che non è saggio cercare di entrare a Napoli con la forza, e accetta l’atto. Le armi siciliane arrivano nello Stato della Chiesa. A Roma è insediato Anacleto II. Innocenzo II fugge a Pisa.

Ruggero, signore ora di mezza Italia, può tornare tranquillamente in Sicilia, nella sua fedelissima Sicilia.

L’inverno del 1135 fu terribile. A parte il fatto che la propaganda antisiciliana in Europa dilagava, guidata da S. Bernardo di Chiaravalle che lo definiva “l’usurpatore siciliano”, che chiamava ad aiuto l’Imperatore dalla Germania, dicendo che “chiunque in Sicilia si faccia Re a Cesare contraddice”, il vero problema fu una terribile epidemia influenzale che arriva sino alla casa reale.

La Regina Elvira muore dalle febbri. Ruggero, dopo lunga malattia, riesce a superarla e a sopravvivere, ma è provato, e, certamente per la perdita della moglie, entra in uno stato psicologico di depressione che non lo fa uscire da Palazzo per settimane.

Il troppo silenzio sul re alimenta in Puglia l’idea che sia morto e per i ribelli sembrava giunta l’ora della vendetta.

Ma questa volta il Continente era saldamente presidiato da un’amministrazione civile e militare, non più feudale. Da Salerno la Puglia era governata dal Gran Cancelliere Guarino; da Capua il Principato era affidato all’ammiraglio Giovanni. I due tennero testa ai ribelli che avevano preso le armi, anche senza rinforzi dalla Sicilia. Arrivarono i Pisani, finalmente, ma questi, invece di aiutare i ribelli ne approfittarono solo per distruggere Amalfi, e con essa ogni concorrenza meridionale nei mercati del Levante, poi, alla prima sconfitta all’arrivo di Ruggero, si ritirarono. Per la repubblica marinara campana fu la fine dei commerci. Guarino e Giovanni, in attesa di rinforzi, si limitavano a una guerra di posizione per non sprecare troppo le forze.

Ruggero supera il momento difficile (per inciso, non si sarebbe più sposato, per molti anni, in cui ebbe solo delle concubine, a riprova che il legame con Elvira doveva essere molto solido), e riparte per il Continente, armato e feroce come non mai. Conquista e spiana la città di Aversa che aveva aperto le porte al sempre ribelle Conte di Avellino. E finalmente cinge di assedio Napoli. Rafforzatosi, affida le corone dei due stati continentali ai suoi due figli maggiori: a Ruggero il Ducato di Puglia, ad Anfuso il Principato di Capua. Per i ribelli è la fine: Napoli, assediata, sperimenta la fame, i baroni cadono ad uno ad uno. Ruggero tornava in Sicilia.

L’unico con cui non aveva chiuso i conti era ancora Papa Innocenzo II, che lo considerava, insieme al suo antipapa, un vero eretico. Non avendo altre armi a papa Innocenzo non restò che chiamare dalla Germania l’Imperatore Lotario il quale pure considerava l’Italia merdionale parte integrante dell’Impero (in quanto facente parte del Regno d’italia, forse non avendo del tutto torto, in punta di diritto).

E così nel 1137 calò dalla Germania un esercito poderoso. Nonostante l’eroica resistenza dei Siciliani, si dovette arretrare. A Capua fu rimesso Roberto Drengot, ormai spodestato da anni. Persino Salerno si arrese, e i cavalieri siciliani della città si chiusero dentro il castello in attesa di rinforzi.

L’esercito siciliano era ormai ripiegato in Calabria. Ruggero restava in Sicilia aspettando che la coalizione si sfaldasse da sola. I pisani che, chiamati dall’Imperatore, erano ridiscesi, insoddisfatti del bottino, si ritirarono. Papa e Imperatore litigarono a Salerno tra loro su chi dovesse dare l’investitura del “liberato” Ducato di Puglia, che alla fine diedero “congiuntamente” all’eterno traditore Rainulfo di Avellino. Alla fine, non riuscendo a penetrare tra i contrafforti della Sila, convinti di aver ridotto Ruggero ai confini ereditati dal padre, i tedeschi se ne tornarono in Germania, lasciando 1000 fanti a difesa del nuovo “Duca di Puglia”, stato fantoccio della Germania. Anche il papa tornò a Roma.

Ed è proprio a questo punto che Ruggero che, fino ad allora aveva fatto condurre la guerra ai suoi luogotenenti, sbarca con le forze fresche a Salerno, e passa al contrattacco. La guarnigione assediata nel castello è salva.

Questa volta Ruggero ebbe l’appoggio delle città, che avevano cominciato a gustare i vantaggi di un governo stabile che garantisse l’ordine. Naturalmente ogni sacca di opposizione fu messa a ferro e fuoco. L’Imperatore, dalla Germania, non si sognava di investire di nuovo in una grande impresa al Sud. Tutti i baroni, compreso il Duca di Napoli, si sottomisero.

Solo Rainulfo, troppe volte spergiuro, non poteva arrendersi, e si rifugiò in Puglia, dove riuscì in uno scontro a respingere Ruggero junior, il Duca di Puglia figlio di re Ruggero II, forse per la sua inesperienza. Questa volta re Ruggero non poteva tornare in Sicilia. Era ora di sistemare per sempre il Sud. E così decise di svernare a Salerno, in attesa di rinforzi dalla Sicilia. Alla fine Rainulfo sarebbe morto proprio mentre Ruggero in forze stava piegando le ultime sacche di resistenza in Puglia. La moglie, la sorella del Re, era già morta da alcuni anni, e Re Ruggero fece oltraggiare il cadavere del cognato pluritraditore ma poi, per intercessione del figlio Ruggero che ebbe pietà di tanto oltraggio, ne consentì la sepoltura. La Contea di Avellino, ad ogni modo, non esisteva più.

Di fronte all’ormai evidente successo della Sicilia, papa Innocenzo cambiò atteggiamento: decise di riconoscere il fatto compiuto, e chiese soltanto di “scaricare” Anacleto II in cambio del riconoscimento papale, che valeva come riconoscimento internazionale. Ruggero, combattuto tra il desiderio di pace e la lealtà verso il pontefice che lo aveva sempre appoggiato, prese tempo, invitando a Palermo teologi da entrambe le parti, per dirimere la questione. Mentre la disputa proseguiva, Anacleto muore. Il suo “partito”, dopo aver per qualche tempo tentato di nominare un successore, Vittore IV, si sfalda, e la Chiesa torna all’unità. Se questo fatto tolse Ruggero d’imbarazzo da un lato, dall’altro rinforzò papa Innocenzo che, non avendo più rivali, poté convocare un Concilio in Laterano nel quale scomunicò Ruggero. Ma in realtà stava soltanto “alzando il prezzo” per l’inevitabile riconoscimento. L’ultima “trincea” del papa era mantenere almeno l’indipendenza del Principato di Capua. Ma ormai Ruggero era padrone della Campania settentrionale e del Lazio meridionale da anni. Non poteva accettare, e si arrivò di nuovo alle armi.

Le armi siciliane erano soverchianti rispetto a quelle pontificie. Papa Innocenzo II è sconfitto, circondato, e infine preso prigioniero. Mai disfatta poteva essere più totale. Ma Ruggero era un fine politico, e non umiliò il papa. Lo trattò con tutto il rispetto che meritava il Vicario di Cristo, in cambio del riconoscimento.

E il riconoscimento avvenne. Il Papa voleva tornare a Roma sano e salvo. L’unica cosa che pretese fu che i due stati dell’Italia meridionale (che il pontefice volle chiamare Principato di Capua e Ducato di Puglia e Calabria, a riprova che il suo potere arrivava allo Stretto) fossero riconosciuti “feudi” dello Stato della Chiesa. Rinnovò invece l’Apostolica Legazìa sulla Chiesa di Sicilia (cioè la delega perpetua come Legato Apostolico al Re di Sicilia, già concessa da Urbano II, per cui il Re era in Sicilia anche “Capo della Chiesa”). Ruggero fece questa innocua e piccola concessione. 600 schifati l’anno, questo era il tributo che l’Italia meridionale doveva al papa, e un formale omaggio feudale,ciò che era un prezzo tutto sommato accettabile per avere finalmente la pace e il riconoscimento.

Per inciso, questa sudditanza del Sud al papa sarebbe stata poi ereditata dal Regno di Napoli, che avrebbe fatto omaggio feudale al Papa sino alla venuta delle armi francesi di Napoleone, molti secoli dopo. Alla Chiesa restavano le enclaves di Benevento e Pontecorvo (questa nel Lazio, vicino al confine). Per il resto la Sicilia aveva stravinto.

Napoli fu rispettata dal punto di vista civile ed economico, ma fu punita dal punto di vista politico. Fu infatti fusa amministrativamente con il Principato di Capua, dove fu rimesso il figlio Anfuso, perdendo ogni residua autonomia. Con regolari processi i baroni traditori furono impiccati e i loro beni confiscati alla Corona.

Passato quest’ultimo scoglio, restava quello della definizione dei confini settentrionali del Regno, allora ancora indeterminati. Di questo però non si occupò il Re, ormai inteso a consolidare la propria costruzione. Sarà compito dei suoi figli, Anfuso di Capua e Ruggero di Puglia, regolare i conti con quelle province estreme. Comincia Anfuso, nel 1140, dilagando nella Marsica, completa nel 1141 Ruggero junior che entra a Pescara, con il che le resistenze dei baroni abbruzzesi hanno termine. Con il papa sono definiti i confini settentrionali, che resteranno tali sostanzialmente fino all’Unità d’Italia.

Come abbiamo detto, però, Re Ruggero II ormai aveva posato la spada e si stava dedicando alla legislazione.

Le sue leggi sarebbero state raccolte poi nelle “Costituzioni del Regno”. In Sicilia mise ordine alla legislazione provvisoria posta dal padre ai tempi della conquista. Ai tempi di Federico non si ha notizia di “leggi del Gran Conte”. La legislazione di Ruggero fu quindi completa, e sostitutiva di quella precedente. Sui feudi meridionali la legislazione fu invece parziale. Le leggi longobarde non furono stravolte, furono anzi estese alla Calabria. Ma alcuni punti fermi dovevano essere comuni a tutto il Regno nella sua concezione più ampia.

Così nel 1140 ad Ariano, in Irpinia, viene convocata una Curia Generale di tutto il Regno, cioè un Parlamento. Questo Parlamento non vide, a differenza di Salerno e Palermo, la presenza di non nobili. In questo senso fu un passo indietro. Però raccolse, per la prima volta, rappresentanti di tutti gli stati di Ruggero: Sicilia, Puglia e Capua. Le sue Costituzioni dovevano valere per tutto il “Grande” Regno di Sicilia, e non solo quello propriamente detto fino alla Calabria. Poi la grande novità fu che il Parlamento di Ariano, a differenza di quello di Palermo che era stato politico e istituzionale, fu per la prima volta espressamente “Legislativo”. Le Costituzioni di Re Ruggero furono sottoposte al Parlamento e lì formalmente approvate.

Le novità della legislazione di Ruggero furono molte, ed è venuto il momento di compendiarle. Sia quelle espressamente approvate ad Ariano, sia quelle che non è sicuro siano state approvate lì (non ci sono giunti gli atti).

Intanto fu solennemente stabilito il principio che i diritti feudali erano “Regalìe”, cioè derivavano dal Re, e non erano quindi disponibilità private dei titolari.

I feudi furono dichiarati “inalienabili”. Anzi quasi fu tolta la successione. Fu stabilito che il successore nel feudo non poteva essere immesso nel possesso senza pagare una tassa al Re, il Relevio, e fare nuovamente omaggio feudale.

I “subfeudatari” furono legati da un doppio legame di fedeltà: al Signore principale e al Re, al quale tutti dovevano essere fedeli. Ricordiamo che la feudalità, soprattutto in Sicilia, era sui tre livelli di subinfeudazione di Conti, Baroni e Militi.

L’aristocrazia fu resa rigidamente ereditaria, per evitare che “di fatto” si costituissero altri nobili, che evidentemente il Re vedeva come una minaccia per il suo potere.

Poiché le donne erano “capaci” di trasmettere i feudi per eredità o per dote, impose il consenso regio su tutti i matrimoni nobili. Questo provvedimento, con le lungaggini burocratiche che comportava, fu un colpo formidabile, anche demografico, alla nobiltà, perché molte “donzelle” si videro invecchiare a casa senza poter prendere marito per l’assenza dell’assenso regio.

Il feudo fu legato strettamente ai servizi militari e ai pesi che ne derivavano, al punto che se era ereditato da un minore, questo, durante la minorità, era spossessato dei suoi beni, avendo solo diritto al sostentamento e all’educazione. E la maggiore età fu elevata: 25 anni per gli uomini, 14 per le donne, ma solo se sposate.

Ad Ariano tentò pure un moderno “signoraggio” monetario, fissando per legge un’equivalenza impossibile tra una diffusa moneta d’argento coniata a Roma, la “romesina” con una coniata da lui, il “Ducato”, di più bassa lega. Ma il tentativo fallì. L’economia guardava allora al valore intrinseco delle monete, e dopo qualche anno di depressione dell’economia, Ruggero dovette accettare il cambio più sfavorevole con la sua moneta.

A proposito di questo diciamo qualcosa sulle monete di Ruggero. Furono tutte coniate nelle due zecche di Messina e Palermo, più Messina che Palermo. Non c’era ancora molto ordine: si andava dal Tarì d’oro (poco più di un grammo) ai Ducati d’Argento, ai Follari (con multipli e sottomultipli) di rame, bronzo, ottone, e infine, alle Kharrubbe, di bassa fattura (non erano neanche tonde, ma quadrate) e di leghe vili. Sulle monete minori, naturalmente, il ricco governo siciliano poteva godere di un buon potere di signoraggio. Le iscrizioni erano tutte in greco o in arabo a caratteri cufici, come da tradizione.

Ad ogni modo, dopo un’importante soggiorno a Napoli, nel 1141 Ruggero tornò in Sicilia.

Per omogeneità di trattazione, interrompiamo il filo degli eventi, e soffermiamoci adesso sulla legislazione e sull’amministrazione del Regno di Ruggero II.

Ruggero sistemò infatti anche la burocrazia interna. Tra storia e mito, sta di fatto che la Curia, nella sua versione ristretta, costituiva il Regio Consiglio, il massimo organo politico e giuridico del Paese. Ad esso, oltre ad altre figure, la tradizione attribuisce le figure dei “Sette grandi del Regno”. Questi erano, nella formulazione definitiva trovata dopo il 1141, i seguenti:

Il Gran Giustiziere, che presiedeva a tutta la Magistratura giudicante del Regno, ed era considerata la figura istituzionale di garanzia di massimo livello.

Il Grand’Ammiraglio, Primo Ministro e Capo della Flotta, allora più potente di quella bizantina, la prima flotta navale al mondo.

Il Gran Cancelliere, a capo della burocrazia e dei registri centrali della Monarchia.

Il Gran Conestabile, a capo delle milizie private del Re.

Il Gran Camerario, a capo dell’amministrazione finanziaria.

Il Gran Protonotario e Logoteta, che sovrintendeva a tutti gli atti pubblici di maggior momento.

Il Gran Siniscalco, Ministro della Real Casa, che si occupava della Reggia di Palermo e della guardia privata del Re. Reggia di Palermo che si deve proprio a Ruggero, come la Cappella Palatina, per trasformazione del primitivo castello bizantino/arabo trovato e occupato da Ruggero I.

In realtà le funzioni tra questi Ministri si sovrapponevano un po’ l’una sull’altra. Quelle burocratiche erano divise tra il Cancelliere e il Protonotaro. Quelle politiche tra l’Ammiraglio e il Cancelliere. Ma la mano ferma e l’autorità del Re ponevano fine ad ogni contesa interna.

Il Regio Consiglio era un po’ Consiglio dei Ministri, un po’ Consiglio di Stato. Oltre ai 7 grandi ne facevano parte un numero variabile di alti magistrati e ministri. Insomma, era la Tecnocrazia del Regno, i consiglieri più stretti del Re.

Le sue riforme interne più importanti riguardarono l’amministrazione della giustizia.

Nelle singole città, al posto dei “Vice-comiti”, che sembravano quasi feudatari, mise i Bajuli, veri e propri funzionari pubblici.

Il Bajulo era l’organo periferico dello Stato per eccellenza. Incassava i tributi del re, o con stipendio (a “credenza”), o in appalto contrattando un gettito alla Corona e trattenendo il resto (a “staglio”). Amministrava in periferia l’erario regio, come ad esempio le sedi ecclesiastiche temporaneamente vacanti. Aveva competenza sulle cause civili (ma non su quelle feudali), e sui piccoli reati “criminali” (quelli per i quali non erano previste pene corporali). Aveva anche temporanei poteri di polizia (carcerazioni), ma poi doveva ottenere, per trattenere in carcere i presunti rei, un provvedimento da parte della Magistratura vera e propria, cioè dai Giustizieri.

Questo riordino modernissimo dell’amministrazione periferica dello Stato e della giustizia, fu solo un aspetto della saggezza legislativa di Ruggero.

La vera innovazione fu che istituì il giudizio di appello, e limitò moltissimo gli insignificanti “Giudizi di Dio” che premiavano i più forti e condannavano i più deboli. Fra questi, uno dei più tragicomici, la prova del “pane e cacio”, che consisteva nel fare ingozzare l’imputato di una grossa quantità degli omonimi alimenti, di per sé molto asciutti, prima che una clessidra avesse il suo corso. Se riusciva ad ingozzarsi era innocente, altrimenti era certamente colpevole. Questa la barbarie dei tempi che Ruggero valse a moderare.

Ruggero costituì uffici giudiziari provinciali, affidati ai Giustizieri, e uffici amministrativi provinciali, affidati ai Camerari.

Il Giustiziere era giudice d’appello degli Stratigoti (dove questi erano costituiti) e in primo grado (dove non c’erano Stratigoti) sulle grandi pene del diritto criminale, e di appello per le piccole pene, rispetto ai Bajuli. La loro competenza criminale naturale era quella dei delitti (omicidio, stupro,…) per i quali era prevista la morte o l’amputazione. Avevano anche una competenza civile sui “feudi non quaternati” (cioè quelli minori, dei militi e dei baroni), e presiedevano anche le “corti dei pari” nelle cause criminali feudali dei feudatari minori. Se una corte bajulare o stratigoziale o feudale non decideva una causa entro un certo tempo, potevano, anzi dovevano, avocare a sé la causa.

Il Camerario, invece, oltre ad essere il superiore e il collettore dei tributi rispetto ai Bajuli, decideva in appello le cause civili dei Bajuli, nonché tutte le cause tra bajuli, appaltatori e contribuenti, un po’ come le moderne Commissioni tributarie.

Anche i Camerari e i Giustizieri, come i Bajuli, erano “a credenza” o “a staglio”, e il loro mandato era solo di alcuni anni, per evitare che diventassero nuovi feudatari. Poi dovevano restare 50 giorni a disposizione del nuovo funzionario, per ascoltare eventuali reclami da parte dei sudditi ed eventualmente giustificarsi.

I “Giustizieri” erano uno per Vallo (tre, quindi) e a parte era quello per la Calabria. Ma pare che Palermo abbia avuto al primo grado un “Giustiziere” (praticamente uno Stratigoto), così come lo aveva Messina. I “Camerari” erano di più: dal generico Val Demone era scorporato quello di Messina, Rometta e Milazzo (oggi diremmo una sorta di “area metropolitana”) e dal Vallo di Mazara si distingueva il Vallo di Girgenti.

Tutti questi magistrati erano assistiti da un collegio di giudici, non è ben chiaro se con funzioni giudicanti, o semplicemente istruttorie. Questi ultimi, però, erano ancora “giurati” e non giudici di mestiere. Le riforme giudiziarie di Ruggero ricalcano da vicino quelle contemporanee dei Normanni d’Inghilterra, dove il giurato popolare giudica il fatto, e poi il giudice di mestiere applica il diritto.

Ruggero proibì la “falsazione del giudizio”, con cui prima i giudici potevano essere sfidati a duello dalla parte soccombente. Il giudice cominciò a sentenziare “in nome del Re”. Ed in quanto tale era inviolabile, accusabile solo davanti al Re per tradimento o corruzione, e quindi sottoposto a pene severissime, tra cui la condanna a morte. Ma non più sfidato, sottoposto al “Giudizio di Dio”, come avveniva nei precedenti tempi barbari.

Al massimo livello, 3° grado di giudizio, era la “Magna Curia” presieduta dal Gran Giustiziere.

Come abbiamo detto tutti gli uffici dello Stato di Sicilia gemmavano dalla primitiva e unica “Curia Regia”, che prima ancora era solo “Comitale”. Per “specializzazione”, così, la Curia si costituiva in Corte con alcuni componenti, diventando un foro autonomo di massimo livello. Per “selezione” diventava Consiglio del Re, e quindi organo politico e costituzionale. Per “allargamento” diventava Curia generale, cioè Parlamento, per le massime decisioni istituzionali e legislative. I “tre poteri”, quindi, di cui secoli dopo avrebbe parlato Montesquieu, osservando forse la Costituzione Britannica, trovavano nelle monarchie normanne un unico organo primigenio, dal quale progressivamente si enuclearono per svolgere le rispettive funzioni. Così fu in Inghilterra, così fu in Sicilia, le avanguardie costituzionali dell’Europa intera.

La “Magna Curia” (nei secoli poi in volgare “Gran Corte Civile e Criminale”), diventò un Primo Magistrato dello Stato in caso di vacanza della Corona, con le necessarie funzioni vicarie attribuite al Gran Giustiziere.

Essa, oltre ad essere giudice di ultima istanza delle precedenti cause, nominava i Giustizieri provinciali, sovrintendeva in prima e unica istanza le cause dei “Feudi Quaternati” (quelli concessi direttamente dal Re e riportati nei suoi registri ufficiali).

Un’eccezione a questo sistema rigido di giustizia erano i reati penali dei “Nobili”. Per questi, se di massimo livello (Conti), la competenza era solo del Parlamento, costituito in “Alta Corte dei Pari”, per il pregiudizio che un nobile poteva essere giudicato solo dai suoi pari. Ma anche qui la presidenza del Parlamento era affidata in tali casi al Gran Giustiziere. Così ad Ariano furono processati e condannati tutti i feudatari ribelli.

A livello minore, cioè all’interno di una Contea, c’erano, in parallelo ai “Pari del Regno” di livello superiore, i “Pari della Signoria”, altri baroni che giudicavano il barone per reati criminali. In questo caso interveniva però il Giustiziere provinciale a presiedere la Corte. Ancora più in basso, per i Militi, si ripeteva la stessa storia, con un giudice pubblico inviato dal Giustiziere in ogni caso.

Questa “separazione” dei tre gradini della nobilità dal Popolo ci dà occasione per rivedere l’organizzazione della società. Sotto l’Aristocrazia dei Conti, Baroni e Militi, c’era infatti il popolo, diviso nettamente in classi o ceti.

Al livello più basso teoricamente c’erano gli schiavi propriamente detti, o servi, ma il loro numero era ormai trascurabile.

Più numerosi i servi della gleba, o “villani”, uomini semiliberi, capaci cioè di avere proprietà e dotati di libertà personale, ma “attaccati” a un feudo come “pertinenze”; e quindi incapaci di spostarsi senza il consenso del Signore, ed obbligati ad un certo numero di ore al giorno di servizio gratuito nei suoi confronti. Alcuni, anziché ore di lavoro, dovevano dare prodotti in natura, ma i più fortunati erano in grado di pagare questi debiti di lavoro o di prodotti, in denaro, come una vera e propria imposta personale, restando per il resto del tutto liberi.

Sopra c’erano gli uomini del tutto liberi, divisi in “rustici” e “borgesi”. La divisione era piuttosto netta. I “rustici” vivevano nelle campagne, si occupavano di lavoro agricolo a stretto contatto con i villani dai quali erano a malapena distinguibili. L’unica differenza era che si trattava di “salariati”, e quindi di uomini liberi. Ma la loro libertà si restringeva al diritto civile, essendo del tutto incapaci di qualunque diritto politico.

Diversi, e in stato migliore, erano i “borgesi”, cioè letteralmente gli “abitanti dei borghi”, delle più varie estrazioni economiche. La loro libertà era piena, ma si andava dai poverissimi salariati, ai “ricchi borgesi”, dotati di proprietà allodiali (cioè proprietà private come quelle attuali, non feudi). Chi aveva mulini, chi terreni, chi case. C’era dentro il “famiglio” del Milite, cioè il suo scudiero, e l’artigiano, il commerciante e il maestro, il medico e il piccolo sacerdote. Il Popolo libero, in una parola, che in qualche misura partecipava all’abbozzo di vita politica della sua città o paese.

La vita di un “rustico” valeva il doppio di quella di un “villano”. Quella di un “borgese”, il doppio di quella di un rustico; e così via tra il milite e il borgese, il barone e il milite, il conte e il barone. Sopra a tutti, il Re, sacro ed inviolabile.

A proposito di Borgesi e dei Borghi, cosa sappiamo dell’amministrazione municipale? Quasi nulla. In Puglia e in Campania Ruggero fu costretto a riconoscere una certa autonomia ai Comuni, anche se nulla in confronto alla sostanziale indipendenza dei Comuni del Centro-Nord; meno in Calabria.  E in Sicilia? Siamo alle congetture. Ruggero I non aveva neanche affrontato il problema. Dovevano sopravvivere, qua e là, avanzi di istituzioni bizantine e saracene, rafforzate dagli innesti delle comunità lombarde immigrate. In realtà le varie comunità etniche, più che geografiche, mantenevano i loro ordinamenti. Nelle città feudali non troviamo traccia della minima autonomia rispetto ai signori. In quelle del Re sembra che i Vice-comiti, poi i Bajuli, fossero visti anche come la principale autorità comunale.

Ma, a poco a poco, contraendosi la comunità saracena, restando isolata quella ebraica, e fondendosi le comunità crisitane, le primitive amministrazioni municipali prendono forma, sotto forma di “assemblee di borgesi”. In alcuni, pochissimi, diplomi si trova menzione del “maestro dei borgesi”, che ancora poteva essere nient’altro che il loro portavoce nei confronti di re, nobili e prelati (rustici e villani, come visto, non avevano voce). Un “portavoce” che sarebbe diventato prima o poi nei secoli un vero sindaco, come il Buergenmeister (borgomastro) in Germania o il Maire (mastro) in Francia. Insomma in Sicilia le amministrazioni municipali stavano prendendo la stessa via, di derivazione statale, che avrebbe avuto nel resto d’Europa, e non quella autonoma tipica dell’Italia di quei tempi. In ogni caso il “maestro dei borgesi” era sottomesso al Bajulo, di nomina governativa o feudale, quindi ancora più “presidente del consiglio comunale” che non vero e proprio “sindaco”. Ma non sempre. Ad esempio a Cefalù il “Consiglio dei Borgesi” eleggeva una terna dalla quale il Vescovo, nella qualità di signore feudale, nominava il bajulo.

Dal punto di vista finanziario, infine, sotto Ruggero la primitiva “dohana” si specializzò in due branche. La prima, che teneva conto dei feudi quaternati e degli obblighi militari ed economici di questi, prese il nome di “Dohana de baronum”. La seconda, per tutte le esazioni comuni, raccolte dai Camerari provinciali, “Dohana de secretis”, dal nome dell’ufficio finanziario minimo alle dipendenze dei Bajuli, che andava prendendo il nome di “Secrezia”, perché affidato a un funzionario, detto “Secreto” (da cui il moderno “Segretario”). Tutti i feudi, anche quelli ecclesiastici, furono sottomessi al servizio militare (a differenza di Ruggero I che li aveva esentati), al quale si poteva adempiere o armando un certo numero di fanti e cavalieri, o … pagando il re perché ci pensasse lui.

Accanto alle normali imposte indirette, o “gabelle” e servizi personali, erano presenti alcune imposte dirette o “collette”, sui beni allodiali, sebbene ancora straordinarie in occasione di speciali esigenze della corona.

Questa “organizzazione scientifica” dello Stato spiega perché Ruggero II aveva sempre una marcia in più rispetto ai suoi nemici esterni ed interni, la tasca sempre piena e gli ordini prontamente ubbiditi.

Riprendiamo ora il filo della nostra narrazione negli anni ’40, quando il quarantenne Ruggero attendeva al consolidamento del nuovo Stato.

Nel 1143 muore Innocenzo II e, immancabilmente, nuovi problemi vengono dallo Stato della Chiesa. Le disgrazie non vengono mai sole e l’anno successivo Anfuso, il Principe di Capua, viene a morire. Ruggero spedisce a Capua il più piccolo dei suoi, Guglielmo, quello che poi sarebbe diventato re sotto l’infelice soprannome di “Il Malo”. Anche Tancredi, secondogenito e Principe di Taranto muore lo stesso anno. L’amministrazione del Principato di Taranto è centralizzata così a Salerno, sotto la guida di Ruggero, il primogenito, Duca di Puglia.

Ruggero venne a capo dei nuovi fastidi con la Chiesa, aiutandola contro la Repubblica Romana instraurata da Arnaldo da Brescia che voleva restaurare l’antica potenza della Repubblica Romana, chiamando in aiuto gli Imperatori tedeschi, considerati “Sacri Romani Imperatori”, togliendo così ogni potere temporale ai papi. Arnaldo da Brescia considerava l’apostolica legazìa concessa alla Sicilia un’eresia e la Sicilia stessa nient’altro che un’isola ribelle a Roma.

Ruggero ebbe buon gioco a distruggere questa politica antisiciliana, rimettendo il papa sul trono, e così riconquistandosene ogni riconoscimento. Il confine settentrionale era ora del tutto tranquillo.

I problemi ora erano a Sud. Per capirlo bene dobbiamo fare un po’ di flashback. Mentre Ruggero lottava in Italia meridionale, dopo la presa di Pantelleria, le aggressioni siciliane alle coste africane si erano fatte più frequenti. Un po’ per la debolezza dello staterello di Mahdìa, che oscillava tra la sudditanza agli Almoravidi e la protezione siciliana, un po’ per la carestia e la povertà cui solo la Sicilia poteva far fronte, la penetrazione siciliana si faceva di anno in anno più incisiva. Nel 1134 la Sicilia si era impadronita dell’avamposto dell’Isola di Gerba e poco dopo delle Isole Kerkennah. Insomma, il Canale di Sicilia era dominato esclusivamente dalle navi siciliane, e i siciliani costituivano fondaci, chiese, comunità, dall’altra parte del mare. Giorgio d’Antiochia aveva spie, colonie commerciali e fanti, al di là del Canale. In quegli anni la penetrazione siciliana era davvero quella di una potenza semicoloniale. Esportavano grano, prestavano denaro, e in cambio si prendevano tutto quello che potevano, in accordo con i genovesi, alleati di sempre. Oltre però non andarono. I troppi torbidi in Italia meridionale sconsigliavano da un impegno più incisivo. Nel 1140 ci fu una spedizione su Tunisi, ma non ne seguì una vera conquista.

Pacificato il Sud Italia le mire siciliane sull’Africa si fecero più concrete. L’attacco partì da Tripoli, che si era sganciata dallo stato tunisino. Nel 1146 i Siciliani conquistano Tripoli, la fascia costiera tripolitana e l’immediato entroterra, anche reso tributario. Ruggero adottò con gli arabi di Tripolitania la stessa intelligente politica tollerante del padre, consolidando il dominio. I cavalieri accorrono numerosi in Africa colonizzandola. L’invasione della Tripolitania provoca la reazione di Mahdìa, in Tunisia, che ora viene attaccata e saccheggiata dal mare senza alcuna remora.

Giorgio di Antiochia, con una flotta di 150 navi espugna la capitale Mahdìa (1148). I “normanni”, cioè i Siciliani, dilagano nel Nord’Africa. Dove arrivavano proclamavano un “editto di sicurezza” per far tornare i ciittadini. Nel 1152 cade Tunisi. Centrato su Mahdìa si costruisce un “Regno d’Africa” unito alla Sicilia, che fu l’ultimo vanto di Ruggero. Le popolazioni arabe dell’interno (da Kairuan sino al deserto) si misero sotto la protezione siciliana in chiave antiberbera.

Se la Sicilia avesse tenuto per un’altra generazione questa conquista, sarebbe stato uno stravolgimento geopolitico senza precedenti. Ruggero incoraggiava Cavalieri e Borghesi dalla Sicilia a stabilirsi in Africa, per alterarne l’equilibrio etnico e consolidare la conquista. La capitale stessa sembrava quasi la Palermo appena successiva alla conquista normanna, di nuovo piena di chiese, con il ritorno della lingua latina.

Ma la Sicilia degli anni ’40 e ’50 aveva troppi fronti aperti. Forte della sua supremazia navale volle rendersi padrona anche di Adriatico e Ionio, e qui si scontrò con i Bizantini e i loro alleati Veneziani. Furono stabilite teste di ponte in Albania (Durazzo, Valona), Dalmazia (Ragusa, oggi Dubrovnik), le Isole Ionie (Corfù, fu presa nel 1140 e persa dieci anni dopo).

Ma da quel lato le vicende furono alterne. I Greci si difesero bene.  Ci furono momenti in cui si tentarono matrimoni/alleanze, le cui trattative poi naufragarono, e momenti di scontro. Ci furono momenti in cui i Greci si spingevano fino alle coste calabresi, altri in cui Giorgio di Antiochia con la flotta siciliana stava facendo andare in rovina l’Impero d’Oriente, occupando vaste coste dell’Acarnania, dell’Etolia, spingendosi fino a Tebe, Atene e Salonicco. In un’azione dimostrativa la flotta siciliana forzò i Dardanelli, giunse fino a Costantinopoli, arrivando a lanciare le frecce sulla ciità e a violare persino giardino imperiale, ma poi prudentemente si ritirò.

Uscito sull’Egeo da questa incursione, Giorgio d’Antiochia liberò Luigi VII di Francia, di ritorno dalla disastrosa II Crociata, già prigioniero della flotta bizantina. Il re francese fu portato a Palermo, accolto con tutti gli onori da Ruggero,  e poi scortato fino a Tarquinia sulla strada di casa. Chissà, forse in questa accoglienza fastosa Ruggero stava dimostrando al Re di Francia che il nipote di un piccolo barone di Normandia suo feudatario ora era diventato Sovrano di un regno più ricco del suo.

La lotta con Bisanzio non diede mai la vittoria definitiva ad una parte o ad un’altra, ma è certo che mai la Sicilia aveva fatto sentire tanto lontano la forza delle proprie armi. Si sarebbe arrivati ad una pace definitiva solo nel  1156, quando Ruggero già non c’era più. La Sicilia si disimpegnava al di là del mare; l’Impero d’Oriente rinunciava per sempre ad ogni pretesa su Sicilia ed Italia meridionale e finalmente riconosceva come legittimo il Regno di Sicilia.

Gli ultimi anni di Ruggero furono funestati da altri lutti. Il figlio più valente di tutti, Ruggero di Puglia, muore nel 1148 lasciando solo due figli naturali, tra cui quel Tancredi di Lecce che un giorno sarebbe stato Re di Sicilia. Già da alcuni anni il figlio più piccolo, Enrico, era pure morto. Ruggero affida entrambe le corone continentali al superstite Guglielmo. E tenta di darsi nuova discendenza, sposando nel 1149 Sibilla di Borgogna, quando già aveva 54 anni che all’epoca erano un’età molto matura. Ma non fu in questo fortunato. Sibilla morì appena un anno dopo, di parto, senza lasciare discendenti vivi. Nello stesso anno muore il preziosissimo ammiraglio Giorgio, sostituito da Majone di Bari, anche lui valente, ma forse troppo avido e ambizioso.

Nel 1151 Ruggero sente di non stare più bene come un tempo. Richiama Guglielmo da Salerno e lo fa incoronare, associandolo al trono, per fare quanto più possibile “affiancamento”. Il Continente, del resto, è ormai pacificato e può essere lasciato a fedeli funzionari. Lo stesso anno si risposa per la terza volta, con Beatrice di Rethel, preoccupato di dover affidare tutta la propria discendenza ad un solo figlio. Quest’ultima gli avrebbe dato Costanza, la futura imperatrice e madre di Federico II, ma Costanza non arrivò a conoscere suo padre, essendo nata nel 1154, pochi mesi dopo la morte di Ruggero II.

Nel 1152 il Regno d’Africa raggiunge la massima estensione con la presa di Bona, in Algeria (oggi Annaba). Opera di Filippo di Mahdìa, un uomo di Giorgio d’Antiochia, eunuco convertito al cristianesimo definito da Michele Amari “né cristiano né musulmano, né uomo né donna”. Filippo prese Bona, ma fece fuggire indenni, con il suo consenso, i maggiorenti musulmani della città con i loro beni.

Questo valse a lui l’accusa di tradimento e di falsa conversione al cristianesimo. La componente cristiana del Regno si era da tempo ormai rafforzata e mal sopportava il ruolo dei musulmani o ex musulmani. Ruggero, forse non tanto più sereno, lo fece processare per alto tradimento e nel 1153, pochi mesi prima di morire, lo condannò ad essere arso vivo. Si è discusso molto su questo atto di intolleranza a sfondo religioso. Si è detto che Ruggero doveva dare un segnale contro i musulmani, per motivi politici interni; si è detto che fosse dovuto all’età o alla malattia. Ma forse erano soltanto i tempi a dettare tanta atrocità. Ruggero era prudente, ma alle volte tremendamente vendicativo, specie contro le persone, baroni o funzionari, dai quali si sentiva tradito. Sta di fatto che dopo la morte di Filippo, per i mesi successivi, anche dopo la morte di Ruggero, seguirono in tutta la Sicilia veri e propri pogrom a danno dei Musulmani, a dimostrazione che la convivenza tra le fedi religiose diverse era solo un “miracolo” dovuto ad una condizione transitoria, che non sarebbe potuto durare a lungo in una società del XII secolo.

Uno degli ultimi atti di politica di Ruggero II, fu un trattato di reciproca non aggressione con i Fatimidi d’Egitto: i Siciliani si impegnavano a non valicare il Golfo della Sirte, gli Egiziani a non aggredire il Regno cristiano siciliano d’Africa. Saggezza sprecata appena un anno dopo dal figlio Guglielmo I, che non trovò di meglio che aggredire con la flotta siciliana i porti egiziani, accelerando la rovina dell’importantissima conquista del padre nel Maghreb.

Nel 1154, prima ancora di aver compiuto il 59° compleanno, Ruggero II muore, a seguito di una malattia.

Aveva trovato un piccolo stato feudale in Sicilia e Calabria, lasciava la più grande potenza politica del Mediterraneo, con il figlio Guglielmo I già ben insediato sul trono. Uno stato florido, ordinato, un patrimonio politico che sarebbe durato secoli. L’unica cosa che non era riuscita ad ottenere era il riconoscimento politico da parte dei due grandi Imperi romani cristiani, che ancora consideravano la Sicilia una loro provincia ribelle. Ma sarebbe mancato poco. Come abbiamo detto quello d’Oriente, Bisanzio, dopo l’ennesima disfatta della sua flotta al largo di Brindisi, avrebbe riconosciuto la Sicilia nel 1156. Quello d’Occidente o “Sacro”, cioè la Germania, si sarebbe fatto attendere sino al 1177, quando Gugliemo II il Buono concluse a Venezia un famosissimo trattato con l’Impero.

Con lui esce di scena il più grande in assoluto dei sovrani siciliani, i cui domini e la cui legislazione forse furono meno ampi che nel nipote Federico II, ma più di quello legato alla Sicilia come centro dei suoi domini, forse meno “eroico” del grande Federico III, ma con un’autorità e un rilievo internazionale certamente più ampi. Il fondatore di un Regno, il Padre della Patria Siciliana.

 

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