NOI E IL MERIDIONALISMO

 

Ci è stato chiesto quali siano i rapporti, di collocazione ideale politica prima che di rapporti concreti, tra i “Siciliani Liberi” e quel variegato mondo che, a costo di far torto a qualcuno, riassumiamo sotto il nome ellittico di “Meridionalismo”.

Crediamo che una risposta in tal senso sia dovuta, per fare chiarezza su un tema molto importante.

Intanto il “meridionalismo” non è un soggetto politico e neanche una concezione politica ben definita; è piuttosto un’area culturale vasta, basata sulla consapevolezza storica del fatto che la c.d. Unità d’Italia sia stata fondata essenzialmente su un’operazione di conquista da cui è seguita l’attuale condizione coloniale dell’intero Mezzogiorno. 

In questo ampio, amplissimo, concetto, naturalmente si potrebbe collocare “anche” l’indipendentismo siciliano, che mantiene la propria specificità.

In un senso un po’ più ristretto “tiriamo via” ogni concezione “sicilianista”, e intendiamo per “meridionalismo” tutte quelle posizioni politiche che considerano l’Italia meridionale, comprensiva o meno della Sicilia, e talvolta persino della Sardegna, oggetto principale di riflessione e attivismo politico e culturale.

All’interno di questo insieme più ristretto, le posizioni politiche si fanno assai diversificate: si va dal “rivendicazionismo” unitario che già fu di Gramsci e Salvemini, a soluzioni istituzionali diversificate, fino al “napolitanismo” (concezione indipendentista o autonomista per le regioni del Sud continentale) o al “duosicilianismo” (variante della precedente che ingloba anche la Sicilia e che a sua volta si frammenta in repubblicani, neoborbonici e così via).

 

Il meridionalismo, rispetto all’indipendentismo siciliano, presenta indubbiamente non pochi punti di sovrapposizione, quando non di confusione, ma anche differenze molto importanti.

 

Dal nostro punto di vista, non solo la Sicilia, ma tutto il c.d. Mezzogiorno, cioè l’Italia meridionale e la Sardegna, costituiscono colonie interne all’Italia, e qualunque prospettiva di riscatto che faccia leva su condizioni comuni va guardata con molto interesse.

Nondimeno si tratta di progetti politici distinti, con prospettive politiche di soluzioni istituzionali di fondo spesso intrinsecamente inconciliabili tra di loro.

Noi siamo “indipendentisti siciliani”, la nostra “nazione” è la Sicilia, i cui confini sono segnati dalla natura. Non siamo interessati ad alcun “separatismo” dall’Italia per trovarci  poi inseriti in una “mezza Italia”. Non è questo il nostro progetto politico. Né la militanza in Siciliani Liberi può farsi contaminare da un’idea completamente diversa quale questa è. 

Guardando al nostro passato, il nostro pantheon indipendentista, il giudizio sulla nostra storia, non può essere modificato neanche di una virgola, solo per “non dispiacere” a qualche nostalgico del regime duosiciliano. Guardando al futuro non possiamo neanche pensare ad una Sicilia italiana, anche quando si trattasse di un’Italia dai confini ristretti o “del Sud”.

Per noi i “dies nefas” sono l’8 dicembre 1816 e il 15 maggio 1849, quando si chiude l’esperienza plurisecolare di uno Stato di Sicilia, riconosciuto internazionalmente come stato sovrano, e l’ammainamento di una bandiera e di un parlamentarismo, che erano stati alzati a Catania nel 1296, e prima ancora di un Regno fondato sulla sovranità popolare già a Palermo nel 1130 e nel 1282. Su questo non è possibile aprire alcun “negoziato”, va detto in amicizia e franchezza. È il nostro codice genetico, la nostra “ragione sociale”. Prendere o lasciare.

 

Ciò non vuol dire che non riconosciamo la presenza di forti, anzi fortissimi, legami culturali e storici tra la Sicilia e l’Italia meridionale, più stretti di quelli che ci legano all’altra grande Isola dello Stato italiano o all’Italia tutta; si può pacificamente concordare sulla “comune disgrazia” di quella catastrofe che fu il 1860, tale per tutti e non solo per i Siciliani.

Ma non è solo una comunanza culturale che ci può unire agli Italiani del Sud, comunque essi stessi si vogliano denominare. C’è anche la necessità, non prorogabile, di fare fronte comune contro le politiche nordiste, contro quelle della globalizzazione, che schiacciano ora più ora meno, noi e loro, ma che ci vedono pur sempre soccombere. Noi riconosciamo il valore delle alleanze, e – se queste forze usciranno dall’aura culturale per diventare soggetto politico concreto – siamo pronti a sederci attorno a un tavolo e parlare.

D’altronde, se mai la Sicilia tornerà tra il novero delle Nazioni indipendenti, l’Italia resterà il nostro paese più vicino, e – se la parte meridionale dovesse sciogliere i legami di colonialismo interno che pure la incatenano – è proprio con il “Napoletano” che dovremo avere i rapporti più stretti, per forza di cose. Chissà, se ci saranno le condizioni, si potranno mettere anche tante cose insieme: la difesa, la politica monetaria (ma ciascuno con la propria moneta, magari in parità fissa), in parte la lingua (due regioni del Napoletano, la Calabria e il Salento, parlano ancora, sia pure come dialetti, in siciliano), le politiche commerciali, la ricerca scientifica e tecnologica, le posizioni di politica estera, il coordinamento degli ordinamenti giuridici, e così via.

 

La convergenza può trovare tante vie, nel rispetto delle differenze di prospettiva. Ma questo richiede maturità e pragmatismo da tutte le parti. Con i Sardi è più facile: non rivendicano alcuna statualità comune con la Sicilia e sono pacificamente consapevoli dei loro confini e della loro identità nazionale.

Con i Napolitani non sempre è così: la parola “Due Sicilie” possiamo anche tollerarla, ma – per noi, se dobbiamo dirla tutta – è divisiva. Non unisce, riapre antiche ferite. Non uniscono le recriminazioni che talvolta si leggono sul web (e sulle quali passiamo oltre, occupandoci di cose più importanti) sul fatto che saremmo “giacobini” (quando ci va bene) o un “regno vassallo”, o “traditori dell’unità del Regno”. 

Se i meridionalisti impareranno ad avere rispetto dell’indipendentismo siciliano, come fece il grande e indimenticato Zitara,  saranno certamente ricambiati. L’ideale sarebbe, dal nostro punto di vista, che il cavallo rampante del Regno di Napoli stesse in piedi senza bisogno di trovare sulla Trinacria il proprio punto di appoggio. Ma, ad ogni modo, celebrino pure i loro miti fondativi fra di loro. Non saremo certo noi a fare polemiche sul passato. Ognuno celebri e ricordi ciò che meglio crede. Guardiamo al futuro, per favore.

 

Parliamo di programmi e di strategie comuni. Il Sud, come la Sicilia, non può certo aspettare chissà che, o crogiolarsi soltanto sui primati, veri o presunti, del mitico “Regno”. Aria, siamo nel XXI secolo! Noi siamo qua, che dovete fare?

Anche dal punto di vista elettoralistico si può parlare, da pari a pari e di tutto.

Per fare un esempio, alla Camera (per ora ricordiamo a tutti che facciamo parte dell’Italia) nessuno di noi da solo potrà avere mai diritto di tribuna con le attuali leggi elettorali.

In Sicilia – lo diciamo sommessamente – non è pensabile di fare alcunché politicamente senza gli indipendentisti siciliani, e particolarmente senza Siciliani Liberi.

Il voto dato a noi può essere anche un “pezzo di strada insieme”, nella giusta direzione, prima che le strade tornino a separarsi – auguriamocelo questo, vorrà dire che avremo avuto successo.

Questo per chiarezza.

Noi restiamo noi, e non dobbiamo, né possiamo, cambiare il nostro linguaggio. Ma non stiamo giocando, e saremo lieti di unire sotto la stessa bandiera tutte le forze che lottano contro il colonialismo.

Se il nostro appello dovesse cadere nel vuoto, non ci fermeremo certo per questo. Né considereremo di avere nuovi “nemici”. Tutt’al più “amici che sbagliano”.

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