Autodeterminazione dei popoli

Ogni movimento che si batta per l’indipendenza del proprio paese deve aver chiara l’inesistenza di protezioni derivante dal diritto internazionale, strumento imperfetto in parte di natura convenzionale e in parte di natura pattizia, funzionante solo se le violazioni comportano rappresaglie efficaci da parte di altri Stati.

Detto questo, ha senso del parlare di diritto di autodeterminazione dei popoli? No, perché il diritto nasce solo dalla forza e non dal riconoscimento di esigenze etiche, e il diritto di autodeterminazione dei popoli è assolutamente virtuale e non effettivo. Per questo l’indipendentismo catalano, per esempio, operando essenzialmente per vie legali è destinato a sicura sconfitta.

Le posizioni ostili al riconoscimento di rivendicazioni indipendentiste in linea di massima non violano il diritto internazionale odierno, benché le semplificazioni approssimative dei media facciano credere il contrario. Ogni qualvolta si è cercato di attivare il diritto di autodeterminazione per vie legali è scattato il diniego, peraltro “giuridicamente” giustificato.

Il sistema del diritto internazionale è tarato sulle esigenze degli Stati, e attivare il diritto di autodeterminazione comporta sempre un sovvertimento dell’ordine statuale esistente, implica ristrutturazioni geostrategiche ed economiche, e inoltre non è definito in termini di contenuto e procedura.

Non è ben chiaro neppure chi ne sia il titolare, non bastando dire che esso è il popolo; sono inesistenti le procedure per la sua attivazione, e infine non è assistito da nessuna garanzia. Nemmeno dalla Carta dell’ONU, per le manovre di Gran Bretagna e Francia, all’epoca ancora grandi potenze coloniali.

Dopo il 1945, su questo diritto non sono mancate le pronunce giuridiche, e tra i documenti più importante abbiamo la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione dell’Assemblea Generale sull’Indipendenza dei Popoli Coloniali (1960), il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici voluto dall’ONU nel 1966, la Dichiarazione di Principi sulle Relazioni Amichevoli tra Stati, adottata dall’Assemblea Generale nel 1970, e l’Atto Finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (1975) e chi più ne ha ne metta.

I firmatari di tutte queste norme e dichiarazioni erano rappresentanti di Stati spesso col pericolo di trovarsi di fronte proprio a rivendicazioni secessioniste. È corretta la sentenza del 1996 con cui la Corte Suprema del Canada, investita della questione dell’indipendenza del Québec, sostenne che del diritto di autodeterminazione possono avvalersi solo ex colonie, popoli soggetti a dominio militare straniero e gruppi sociali a cui le autorità nazionali neghino il diritto a vari tipi di sviluppo: politico, economico, sociale e culturale. Ma non altre entità. Conclusione peraltro recepita dall’art. 1.4 del primo Protocollo del 1977 alle Convenzioni di Ginevra. I casi di spinte secessionistiche per motivi diversi dai suddetti rimangono meri affari interni di uno Stato.

Peraltro in vari casi l’incertezza regna: soggiace il popolo basco a occupazione straniera spagnola, oppure no? Per la Spagna no, per i baschi sì. Finora la partita l’ha vinta Madrid ricorrendo alla forza. E per quanto sembri paradossale al mero buonsenso (ma i sistemi giuridici hanno logiche proprie), il diritto internazionale non riconosce la nozione di minoranza nazionale, bensì la assorbe in quella generica di popolo, inteso come popolazione di un dato Stato.

La ragione di questa limitatezza deriva dal principio di difesa della sovranità degli Stati e della loro integrità territoriale, giuridicamente superabile solo in presenza delle fattispecie sopra dette. Solo al loro verificarsi la sovranità di uno Stato deve cedere, non essendo più rappresentativa della popolazione secessionista; e allora viene meno l’obbligo di non ingerenza nei suoi affari interni e sono leciti gli aiuti esterni agli indipendentisti di turno. Tutti gli altri casi, al precipitare delle situazioni, sono semplici “insurrezioni” contro cui lo Stato può legittimamente ricorrere alla repressione, eccezion fatta per le azioni lesive dei diritti umani (valutazione, tuttavia, suscettibile di estrema arbitrarietà e quindi di scelte politiche opportuniste).

In particolare dalla seconda metà del XX secolo varie insurrezioni sono state trattate come secessioni “legittimate” dal diritto di autodeterminazione oppure no a seconda delle convenienza delle gran di potenze. Nel caso jugoslavo la secessione della Bosnia è stata riconosciuta, ma non quella dei serbi bosniaci che avevano costituito una propria repubblica; lo stesso dicasi per la secessione del Kosovo ma col diniego alla sua unione con l’Albania. Attenzione, però: una situazione di fatto, se poi si consolida nel tempo, diviene facilmente situazione di diritto.

Ma questo non è tutto. Esiste un grande e insospettato problema: il diritto di autodeterminazione richiede che si stabilisca (sempre giuridicamente, ma con ricadute politiche) cosa sia un “popolo”, al di là di ogni retorica, giacché in diritto internazionale si tende ad attribuire diritti solo agli Stati i quali per la dottrina dominante sono gli unici titolari di diritti internazionalmente rilevanti, oltre che di obblighi.

La conseguenza: al di fuori dei casi davvero legittimanti il diritto di autodeterminazione, si ritiene che decidere spetti all’insieme del popolo dello Stato in questione e non già a una sua parte (quella secessionista). È la tesi di Mariano Rajoy sul referendum catalano: decida al riguardo tutto il popolo spagnolo, e non solo la Catalogna.

Articolo di Pierfrancesco Zarcone

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