Lingua e letteratura latina di Sicilia (I parte)

Il latino nella Sicilia antica:

Il latino come lingua arrivò in Sicilia con le prime due Guerre Puniche (seconda metà del III sec. a. C.) con le quali l’Isola fu conquistata e trasformata in Provincia dell’Impero romano. Da quel momento in poi nessuna lingua avrebbe avuto in Sicilia una presenza così continuativa e diffusa, fin quasi a giorni nostri.

E tuttavia la sua sorte è stata sempre ben strana. In pratica il latino, in quanto tale, non è stato mai o quasi “lingua viva” ma sempre e solo lingua formale, ufficiale. Poi, il maggiore impatto di questa lingua non si sarebbe avuto nell’Antichità, ai tempi dei Romani veri e propri, ma nel Medio Evo e nel successivo Evo Moderno, quando il latino rappresentò a lungo in Sicilia la lingua dotta, dell’alta cultura e del diritto, in un certo senso la “lingua ufficiale” del Regno di Sicilia, però mai del Popolo Siciliano in quanto tale.

Quando i Romani costituirono in Sicilia la loro prima “Provincia” trovarono una terra evoluta, con una cultura alta “rappresentata” in Greco, persino nella parte occidentale che per prima fu organizzata sotto la loro amministrazione. La presenza e il radicamento del greco erano tali che, per tutta l’Era repubblicana, il latino restò in Sicilia soltanto la lingua degli occupanti stranieri. È vero che i Siculi dovevano parlare ancora la loro, piuttosto simile al latino, ma ciò portò soltanto ad una lenta assimilazione precoce (rispetto ai sicelioti) alla nuova lingua forse senza mai realizzare un passaggio perfetto alla stessa.

Ancora nel I sec. a.C., a parte il fatto che non abbiamo notizia alcuna di autori siciliani di lingua latina e che i reperti archeologici ci parlano quasi esclusivamente in greco, il Proconsole Verre, stando alla testimonianza di Cicerone, girava la Sicilia insieme ad interpreti. Questa testimonianza è molto interessante: sia per la parte di lingua greca, che allora doveva considerare se stessa portatrice di una lingua superiore, rispetto al “barbaro” latino, ma soprattutto per la parte sicula, la cui inevitabile lenta assimilazione al latino non aveva portato, ancora duecento anni dopo la conquista, ad una buona comprensione reciproca con gli occupanti italici. Del resto per avere monete siciliane con iscrizioni in latino, ad esempio, si deve attendere addirittura il secolo successivo.

Augusto inviò alcune colonie latine in Sicilia e questo dovette diffondere, finalmente, la lingua dei Romani nell’Isola, ma si trattava ancora di un processo lento. Se da un lato la Sicilia aveva troncato i rapporti con l’Oriente greco ed ellenistico, dall’altro quella cultura, sebbene in declino, era ancora sufficientemente universale per esercitare la sua influenza anche sull’Occidente e per proteggere quindi la grecità d’occidente dalla penetrazione latina.

In questo si coglie però una differenza netta tra i Greci di Sicilia e quelli della Magna Grecia (Italia meridionale). Questi ultimi, a stretto contatto con gli Italici, si assimilarono molto presto ai Romani. Il primo letterato degno di questo nome del latino, Livio Andronico, veniva proprio da quella Taranto che della comunità Italiota aveva rappresentato uno dei centri più importanti. E non fu il solo. La Sicilia invece rimaneva silente o, se proprio esprimeva qualche personaggio di spessore, questi scriveva pur sempre in greco. Pian piano la letteratura latina comincia a diffondersi in Gallia Cisalpina (Italia settentrionale), Narbonese (Francia del Sud) e così via; ma la Sicilia latina resta sempre muta. Persino quando la Spagna, l’Africa e le province orientali cominciano a dare i loro contributi ad una delle letterature più importanti al mondo, la Sicilia o continua a tacere o comincia appena a balbettare qualcosa.

In età neroniana (metà abbondante del I sec. d. C.) troviamo finalmente un autore minore siciliano che scrive in latino: tale Tito Calpurnio Siculo, poeta di genere bucolico, come lo era stato con ben altra stoffa il siceliota Teocrito, ma il nostro sembra debitore dei più moderni Virgilio e, in parte, Ovidio. Alcune odi inneggiano a Nerone, rivelando in lui il cortigiano di provincia trasferito nella capitale. Il fatto che, in quel contesto, scrivesse in latino non appare quindi ancora particolarmente indicativo.

Dobbiamo attendere la fine del secolo per registrare un altro autore, questa volta di cose agricole, tale Siculo Flacco, cui dobbiamo il De condicionibus agrorum (Sulle condizioni dei terreni).

Quel che non dice la letteratura, dice però la cultura materiale. Le scarse testimonianze dell’epoca imperiale ci parlano di una Sicilia con una latinità finalmente progrediente, nelle iscrizioni, nelle monete, a discapito della grecità in lenta ritirata ma persistente.

Il “sorpasso” dovette avvenire all’incirca nel corso del III sec. d.C. che, tuttavia, fu un secolo di crisi generale per l’Impero e per il quale praticamente non abbiamo nulla che riguardi la Sicilia. Nulla, almeno, al di fuori di un piccolo contributo, quello di un tale Flavio Volpisco il quale, insieme ad altri, ai tempi della Tetrarchia di Domiziano (quindi alla fine del secolo) scrisse una grande Historia Augusta, con le biografie degli imperatori avuti sino ad allora. Fra questi il nostro Volpisco non sfigura, con la biografia di Aureliano ed altre, anche perché riesce ad attenersi bene al programma dell’opera non invadendo la storiografia ma restando sul piano strettamente biografico della vita dei Cesari.

Il “decollo” della letteratura siculo-latina arriva finalmente solo a metà del IV secolo d. C. proprio quando ormai l’Impero è quasi in rovina. La figura che segna questo passaggio è Giulio Firmico Materno, gentiluomo siracusano, appartenente alla “classe senatoria” locale. A lui si devono due opere, a suo modo entrambe molto significative. La prima, Matheseos libri octo, è il più grande trattato di astrologia dell’Antichità. Non importa tanto che qua e là abbia plagiato cose scritte da altri, né il fatto che ci fossero veri errori di astronomia, ma la “fortuna” che questo testo avrebbe avuto presso i posteri, nel Medioevo, Rinascimento e oltre, per il fatto di aver tramandato la cultura astrologica antica, tenuta in gran conto dagli ultimi pagani. La seconda opera, invece, De errore profanarum religionum, è successiva alla conversione di Firmico Materno al Cristianesimo. Era quella l’epoca tra l’Editto di Milano (313) con cui Costantino concedeva finalmente libertà di culto ai Cristiani, dapprima perseguitati, e l’Editto di Tessalonica (380) con cui Teodosio e i suoi “soci” nell’Impero proclamarono il Cristianesimo cattolico-ortodosso “religione di stato” e iniziarono la persecuzione di pagani ed eretici. Nel mezzo tra queste due date la classe dirigente greco-romana si andò convertendo in massa alla nuova religione e il nostro ne dà una testimonianza particolarmente significativa. Abbandonata l’astrologia, il nostro si butta nella confutazione degli errori dei pagani e nel dileggio della loro superstizione, pur senza particolare originalità.

Il legame politico con Roma si indeboliva man mano che l’Impero perdeva “colpi”, ma quello economico restava relativamente solido per gli interessi del Vescovo di Roma verso l’Isola. Non furono in grado le invasioni barbariche, né immediatamente la riconquista bizantina, di recidere questi legami, ancora fortissimi ai tempi di Gregorio Magno (fine VI secolo – inizi VII), ma le successive politiche ecclesiastiche bizantine che staccarono la Sicilia da Roma per legarla a Costantinopoli.

A quel punto il legame della Sicilia con la latinità classica, già indebolito, mai veramente forte, cessò del tutto. Il latino scritto scompare di colpo dall’Isola e le popolazioni Sicule più o meno bene latinizzate iniziano a prendere per la propria strada, imprimendo alla loro lingua una specifica evoluzione che, secoli dopo, sopravvissuta all’ondata araba, si sarebbe incontrata con i franco-normanni e con gli immigrati lombardi e in genere italiani che parlavano lingue simili, e avrebbe dato vita al Siciliano, come lo si conosce da quando iniziano le sue testimonianze scritte.

 

Il latino in Sicilia “torna” coi Normanni:

I cavalieri normanni parlavano fra di loro un dialetto francese, il normanno appunto, cui si devono anche molti contributi alla lingua inglese per la quasi contemporanea conquista dell’Inghilterra. I molti italiani al loro seguito, soldati, contadini, commercianti, molti dei quali lombardi, parlavano ciascun gruppo il proprio dialetto romanzo. E tuttavia di questi dialetti e parlate non è rimasto praticamente nulla, se non in quei centri dell’interno in cui la concentrazione di popolazione lombarda fu talmente alta da sostituire la lingua locale con la loro. L’unica lingua scritta che cementava tutti i nuovi venuti era il latino, il latino medievale ed ecclesiastico in particolare, visto che il monachesimo latino costituì la prima ossatura del nuovo stato.

Potrebbe sembrare paradossale che durante il governo della dinastia normanna degli Altavilla non si abbia praticamente nessuna letteratura scritta in lingua siciliana o comunque romanza; paradossale perché si deve proprio a loro se la Sicilia tornò nell’alveo dei paesi di lingua latina. Ciò che restava nell’isola delle parlate latine (una parte sicuramente significativa della società, sia pure molto ridimensionata dalle lingue greca ed araba) trovò grazie a queste immigrazioni e a questo regime nuova linfa e vigore. Le diverse parlate romanze praticamente si fusero creando il Siciliano, anche per l’apporto determinante dei Sicelioti e dei Siqilli che progressivamente abbandonavano le loro rispettive lingue (greco ed arabo). Ma i frutti di questa mescolanza non si vedevano ancora compiuti in epoca normanna. Bisogna aspettare gli Svevi e quindi il secolo XIII. Quando lasciavano qualcosa di scritto i siciliani di ceppo romanzo ai tempi dei Normanni, usavano il latino, che da questo momento diventa lingua ufficiale dell’Isola per molti secoli a venire.

E tuttavia la letteratura latina in Sicilia nei secoli XI e XII è piuttosto povera, ristretta alla corte, certamente non vitale. Come abbiamo detto prima, il latino tra la gente di Sicilia in pratica non ha mai attecchito. La politica dei sovrani normanni teneva due passi: nel breve periodo si appoggiava alla molteplicità di popoli che si trovavano nel regno, tollerando lingue e religioni diverse, tra cui lentamente si insinuava il latino; nel lungo periodo la cultura latina avrebbe assorbito tutto, anche per mezzo di traduzioni della grande eredità che arabi e greci andavano lasciando. Se si può dire in due parole, durante il periodo dei “Ruggeri” prevalsero le culture non latine e la tolleranza, mentre durante il periodo dei “Guglielmi” e oltre il melting pot dei popoli prevalse e troviamo copiose le traduzioni di classici dal greco e dall’arabo al latino. Un’altra caratteristica della letteratura latina di epoca normanna è che, essendo limitata alla corte, tutti i letterati “siciliani” che scrivono in latino in realtà non sono siciliani di nascita ma di adozione, almeno fino a tutto il regno di Ruggero II: francesi, inglesi, italiani, etc.

Fuori dalla corte troviamo solo un primo uso del latino per finalità pratiche. Ma anche questo ruolo di lingua “ufficiale” all’inizio è condiviso con arabo e greco e solo molto lentamente il latino riesce a prevalere. Importante e diffuso nel territorio è in tal senso il ruolo dei monaci, ma anche questi per lungo tempo non reggono il confronto con la penetrazione e la cultura dei “colleghi” basiliani di rito orientale e di lingua greca. Addirittura, dopo l’inevitabile introduzione del monachesimo latino con Ruggero I, con Ruggero II il latino mostra evidenti segni di arretramento, anche come lingua ufficiale, a favore del greco. Da Guglielmo I in poi la bilancia pende di nuovo a favore del latino e sempre di più con il passare del tempo.

I generi letterari, ad ogni modo, sono essenzialmente due: le traduzioni dal greco e dall’arabo e la storiografia.

Le traduzioni in latino della Sicilia normanna sono un patrimonio per l’intero Occidente. È grazie a questo incontro tra culture che Platone o Aristotele o Tolomeo tornano in Europa. Magari sarebbero stati poi valorizzati altrove, ma è in Sicilia che l’Occidente inizia a uscire dall’oscurantismo, così come in Sicilia era sopravvissuta la circolazione aurea, sparita da secoli nel resto del Continente o arrivano per prima i numeri “arabi”. Le Repubbliche Marinare o i Comuni italiani o la Sorbona di Parigi useranno a piene mani quanto tradotto in Sicilia sotto gli Altavilla. Di Eugenio l’Emiro abbiamo già detto parlando della letteratura greca. Qui ricordiamo ancora almeno Enrico Aristippo, particolarmente famoso per aver restituito all’Europa ancora semibarbara diverse opere di filosofia greca antica, tra cui alcuni dialoghi di Platone.

Più originale, per sua natura, è la storiografia, fatta essenzialmente di cronache sull’epopea normanna.

Il primo grande storico è il francese Goffredo Malaterra, vissuto ai tempi di Ruggero I, che scrisse nella sua Cronaca le gesta eroiche dei fratelli Altavilla nella conquista del Sud, concentrandosi poi particolarmente su quelle del più piccolo, Ruggero appunto, e nella sua conquista della Sicilia. Goffredo non fa storia di Sicilia, ma narra in maniera colorita e vivace le vicende dei suoi soggetti principali. Soltanto sul finire del suo racconto, quando ormai Ruggero è il Gran Conte di Sicilia, inizia a raccontarci le vicende politiche e diplomatiche del nuovo stato, anche perché non ci sono più battaglie e conquiste ma lì iniziava una difficile opera di consolidamento della nuova creatura politica.

Sotto Ruggero II – come abbiamo detto – tutta la letteratura latina in Sicilia sembra quasi fare un passo indietro a favore di quella greca. È dalla parte continentale del Regno (in realtà Sud Italia) che troviamo le più importanti storiografie della Sicilia che qui vogliamo introdurre, sebbene non propriamente siciliane, per il fortissimo legame che ebbero con le vicende politiche del più grande dei sovrani normanni. Alessandro Telesino scrive la sua Ystoria Rogerii regis Sicilie Calabrie atque Apulie (si noti che la grafia non è più nemmeno propriamente latina, ma quella del latino barbaro in uso allora in Italia), come partigiano del re, mentre Falcone Beneventano nel suo Chronicon beneventanum, espone le ragioni del papa, e in genere degli oppositori meridionali alla “dominazione siciliana” di quell’epoca. Se Goffredo Malaterra, chierico normanno, si era definito d’adozione siciliano ed era vissuto in Sicilia, questi due autori, ai quali dobbiamo molte delle conoscenze sul primo re di Sicilia, sono in pieno Longobardi del Sud Italia che dalla Sicilia subiscono, l’uno con approvazione, l’altro con rancore, il potere politico della dinastia normanna sul Continente. In pratica, dunque, la Sicilia latina propriamente detta sembra tacere sotto il regno di Ruggero II.

Più ricca invece la storiografia latina a partire dal successore, Guglielmo I. Il meridionale Romualdo Guarna, questa volta però trasferito a Palermo e operante in ambito siciliano, ci lascia il suo Chronicon, una storia universale fino al 1177 (Pace di Venezia). Guarna è un vero chierico, la sua letteratura è tutta religiosa o medievale. Sebbene la sua storia sia universale, però, lo spazio dedicato al Regno di Sicilia è molto ampio, anzi suo merito è quello di non aver scritto una storia provinciale, rivolta verso se stessa, ma di aver inserito la storia del Regno in quella delle relazioni internazionali del tempo: il Papato, l’Impero, l’Impero d’Oriente, e così via.

Finalmente sotto Guglielmo II troviamo un primo autore latino di cui ci sia qualche probabilità che sia stato veramente siciliano: Ugo Falcando, che ci lascia la sua Historia sicula e una Epistola ad Petrum, panormitane ecclesie thesaurarium (Lettera a Pietro, tesoriere della chiesa palermitana), scritta dopo la caduta della dinastia Altavilla, quando già gli Hohenstaufen si stavano impadronendo del potere. Falcando, che nello stile letterario classicheggiava, dimostrando di conoscere bene i vari autori e storici dell’antichità latina, è un vero nazionalista siciliano, il primo di tanti storici del genere che sarebbero seguiti. Nella sua storia unisce l’ideale per il perfetto re, Ruggero II, che incarna le virtù del sovrano che difende la Nazione da tutti i pericoli esterni, con un certo interesse per il Paese in quanto tale. Per questa ragione dipinge Guglielmo I come un tiranno, dandogli quell’epiteto di “Malo” che sarebbe arrivato ai nostri giorni, il suo ministro Maione di Bari come avido e corrotto, pur non disconoscendone le qualità amministrative, e Guglielmo II “il Buono” (pietoso epiteto?) come un sovrano sostanzialmente non all’altezza dei gravosi compiti. Falcando non difende certo i “baroni” in quanto tali, ma la legalità secondo cui doveva essere esercitato il potere regio, di fronte all’arbitrio della tirannia. Sembra già quindi un sostenitore “ante litteram” di quell’ordinamento parlamentare e moderato che avrebbe a lungo caratterizzato la Sicilia, e la sua lealtà alla Sicilia in quanto tale e all’istituzione regia appare sincera. E lo si vede nella pessimistica “Lettera” in cui dispera che qualcuno, nel caos seguente all’estinzione della casa regnante normanna, possa in Sicilia raccoglierne l’eredità: troppo appare il cupo pessimismo, peraltro giustificato, nei confronti dei suoi conterranei indaffarati a salvare posizioni particolari, incapaci di reagire coraggiosamente e patriotticamente contro quella che a lui appariva nient’altro che una brutale occupazione straniera (quale effettivamente fu, almeno ai tempi di Enrico VI, l’invasione tedesca della Sicilia).

Per il resto le opere di letteratura latina sotto i normanni si contano davvero sulla punta delle dita. Come disse un autore ai tempi di Federico II, sotto i predecessori normanni praticamente non c’era nessuno che sapesse scrivere e parlare il latino: “Erant litterati pauci vel nulli” (“picca e nenti” si direbbe in Siciliano). Fra questi pochissimi contributi ricordiamo lo stesso ministro Maione di Bari, pure greco di cultura, che lascia un commento al Pater Noster al figlio, alcuni “immigrati di lusso”, francesi ed inglesi, tra i quali il religioso Stefano di Blois, che lascia una tragedia, una commedia e un poemetto, il toscano Laborante, che lascia due interessanti trattati canonici sulle basi morali del potere regio, a suo modo opere di “politica” per quei tempi: il De Justitia et Jus (Giustizia e Diritto) e il De Vera Libertate (La vera Libertà). Come si vede, però, sono tutti stranieri che scrivono in Sicilia, non ancora siciliani.

(segue)

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